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sabato, Aprile 20, 2024
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“A Chiara”: storia di una redenzione non scontata

A Chiara è certamente uno dei migliori film di questi ultimi tempi post pandemia, profondo, penetrante e sinceramente toccante; qualcuno potrebbe obiettare che sia l’ennesima pellicola che ritrae la Calabria come un posto bellissimo, ma votato alla dannazione? Forse, ma ad avercene più film così, che puntano la lente d’ingrandimento su fenomeni e contesti molto spesso ignorati, oppure trattati con sufficienza.

 Trama: Chiara Guerrasio è una normalissima quindicenne di Gioia Tauro; le sue giornate si dividono tra scuola, uscite con le amiche, palestra e serate in famiglia. Ma la sua esistenza tranquilla si sgretola quando il padre Claudio scappa improvvisamente, mentre la madre, le sorelle, i parenti sono molto restii a spiegarle la situazione, che la ragazzina comprenderà solo grazie alla sua tenacia: il padre, da lei creduto un onesto lavoratore, è in realtà un trafficante di droga che opera per conto della ‘Ndrangheta e si è dato alla latitanza per sfuggire ai sicari di una cosca rivale. Dopo lo shock iniziale e l’incertezza su come agire, alla fine Chiara farà la scelta giusta, anche se il prezzo da pagare sarà altissimo.

Il film, trionfatore all’ultimo David di Donatello, chiude idealmente una trilogia che il regista italo-americano Jonas Carpignano ha voluto dedicare alle variegate realtà sociali della Piana di Gioia Tauro, iniziata nel 2015 con Mediterranea e proseguita due anni dopo con il molto apprezzato, a livello internazionale, A Ciambra, di cui A Chiara riprende alcuni personaggi, come la stessa protagonista che vi ricopriva un ruolo minore.
Utilizzando con molta disinvoltura il sistema narrativo “dall’interno”, Carpignano immerge lo spettatore nella storia di un riscatto né forzoso né scontato, che spinge la protagonista a prendere in mano il proprio destino procedendo tra mille incertezze, fragilità ed angosce (l’immagine ricorrente di Chiara che corre sul tapis roulant, metafora di un’illusione di libertà, ma che invece blocca la ragazzina in una forsennata corsa “ferma” senza meta).
Infatti, la pellicola non trasforma mai didascalicamente la giovane in un’eroina femminista, ma la dipinge come una semplice ragazzina di provincia, cresciuta in una bolla di sapone, che non ha mai intuito nel corso della sua brevissima esistenza il lato oscuro che si celava dentro la sua famiglia: una giovanissima né più né meno dotata dei suoi coetanei, sveglia ma inesperta, che infatti scopre la verità anche tramite le istituzioni. E che nel finale, nonostante abbia finalmente cambiato vita, continua a pensare con nostalgia alla famiglia, ma grazie alla sua caparbietà andrà avanti malgrado sia evidente che avrà bisogno di molto tempo per riuscirci davvero.
La realistica messa in scena (che evita ogni facile stereotipo sulla Ndrangheta e i calabresi) mostra le naturali certezze di una ragazzina che si sgretolano a poco a poco, inesorabilmente, comportando una crisi di coscienza che nessuno può (o meglio, vuole) aiutare Chiara a risolvere: le prime sequenze di intimità familiare o di spensieratezza tra adolescenti vengono invase dai loschi amici del padre che, prima inquadrati fuori fuoco sullo sfondo o dietro porte a vetri e finestrini delle auto, riempiono sempre di più l’inquadratura facendo crollare definitivamente il bel mondo della nostra protagonista e la stessa fotografia (di Tim Curtin), già chiaroscurale, diventa ulteriormente tenebrosa avvolgendo una consapevolezza progressiva che non conduce certo all’illuminazione (come in una brutta fiction), ma accentua il tormento interiore.
L’immediata empatia per Chiara (complice l’eccezionale performance della gioiese Swamy Rotolo, meritatamente premiata col David di Donatello per la migliore attrice protagonista) ci porta a parteggiare per questa adolescente avanzante tra le macerie del suo mondo, i cui primi piani, talmente espressivi da far ipotizzare un intero spettro di emozioni, dominano spesso la scena e spingono a tifare per lei persino quando, ad un certo punto, sembra cedere alla logica ndranghetista ed omertosa; la peculiarità di Chiara risiede appunto in un dualismo che non fa mai comprendere fino in fondo quali siano le sue reali intenzioni, per buona parte del film sommerse nella sua anima, sotterranee come i bunker che il padre latitante usa per nascondersi, come la stessa ‘Ndrangheta, che anche in questo film rimane un mondo sommerso e sconosciuto persino alla gran parte dei suoi affiliati. Ma anche la descrizione del nucleo familiare non riflette mai una banale contrapposizione tra bene e male: sin dall’inizio assistiamo al ritratto di una famiglia tutto sommato “normale”, con i genitori che tentano in qualsiasi modo di assicurare un’esistenza di benessere alle figlie, ma con metodi illegali (emblematica la sequenza del padre Claudio che, al diciottesimo della sorella di Chiara, non riesce ad formulare un discorso e scoppia in lacrime, diviso tra la felicità per la figlia e la coscienza criminale) e che, fino all’ultimo, non diventeranno mai minacciosi o aggressivi verso la congiunta. E questa dualità si riflette anche nella scelta di Chiara, riscattatrice sì, ma anche molto dolorosa e persino struggente. Meno male che, inoltre, Carpignano ci risparmia la solita banale storia d’amore come forza propulsiva della presa di coscienza della ragazza; anzi, il regista suggerisce come il cambiamento interiore debba avvenire sempre tramite la volontà dell’interessato, non giungerà mai né dalla famiglia (significative le scene in cui la sorella e il cugino tentano di impartire a Chiara delle vere e proprie “lezioni di omertà”) e neppure dalle istituzioni, gonfie di retorica ed ambigue nel togliere la giovane agli affetti familiari, anche se dovrebbe essere per il suo bene; infatti, Chiara prenderà la sua decisione solamente dopo l’ultimo, intenso, confronto con il padre in mezzo ad una lugubre campagna nebbiosa, senza condizionamenti.
La tecnica cinematografica rispecchia benissimo il senso di angoscia e di dualismo della protagonista, con buona parte delle riprese effettuate con la macchina a mano, fluttuante come la stessa Chiara che sembra un pesce dentro un acquario, immersa in questo mondo sospeso che le collasserà intorno come un castello di carte; non è certo una casualità l’ultima scena, con la giovane ripresa mentre si allena alla corsa e l’inquadratura diviene improvvisamente fissa cogliendola nell’allontanarsi a gran velocità lungo la pista, definitivamente libera e consapevole.
Ultima nota, la recitazione: oltre all’ottima Rotolo, tutti gli attori (per la maggior parte non professionisti e scelti nella cerchia familiare della protagonista) sono superlativi e ben diretti, perfettamente in parte e mai sopra le righe.
A Chiara è certamente uno dei migliori film di questi ultimi tempi post pandemia, profondo, penetrante e sinceramente toccante; qualcuno potrebbe obiettare che sia l’ennesima pellicola che ritrae la Calabria come un posto bellissimo, ma votato alla dannazione? Forse, ma ad avercene più film così, che puntano la lente d’ingrandimento su fenomeni e contesti molto spesso ignorati, oppure trattati con sufficienza.

Filippo Mammì

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