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sabato, Ottobre 12, 2024
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Adriana Bartolo: la prima avvocatessa penalista del foro di Locri

Abbiamo scoperto che Adriana Bartolo è stata la prima avvocatessa penalista del tribunale di Locri, questo ci ha provocato una curiosità di scoprire com’è il mondo della giustizia visto dagli occhi di una donna, quali le emozioni, quali gli ostacoli da superare per dimostrare il proprio valore. Così abbiamo chiesto alla cara Adriana di concederci del tempo e delle risposte, lei ha accettato e siamo qui a raccontarvi la storia di donna tenace e determinata.

Si ricorda il momento in cui ha deciso di intraprendere questa professione?

Da ragazzina. Mio padre, figlio di contadini, non aveva completato un corso di studi, ma aveva studiato fino alle soglie del diploma e, oltre ad insegnarmi a leggere e scrivere a quattro/cinque anni, mi raccontava di quando, studente in quel di Reggio Calabria, frequentava le aule di giustizia per sentire le arringhe dei grandi avvocati. Forse sin da allora, ragazzina, già quando prendevo in prestito il grembiule nero di mia nonna e, come con una toga sulle spalle facevo i miei discorsi come un’arringa ai compagni divertiti eppure stupiti, quando già provavo indignazione per certe piccole ingiustizie nel nostro mondo bambino, quando sentivo di dover difendere da qualche prepotenza un compagno più debole. Ero affascinata dalle letture di alcuni libri che mio padre, unitamente all’enciclopedia “Il tesoro del ragazzo italiano”dell’UTET”, mi regalò, che mi fecero entrare in una dimensione tanto fantastica quanto verosimile, dove i personaggi mi apparivano eroici se perseguivano quella che ancora non sapevo chiamare “Giustizia sociale”. Mi sentivo io stessa forte, quando la perfidia e l’arroganza erano svergognate e sconfitte. Non ricordo, comunque, un momento preciso, è stata una scelta quasi scontata, a cui sono pervenuta per autodeterminazione e buona consapevolezza di me. La professione legale mi incuriosiva e mi chiamava, soprattutto dopo aver letto, (mi pare al liceo), per caso, gli Atti preparatori al Codice Civile, (basato essenzialmente sul principio di buona fede), quando ho creduto fortemente nell’armonia dei rapporti umani, quelli basati sulla buona fede di una stretta di mano. Ed ero convinta, allora, che anche nel campo penale poteva attuarsi quella giustizia sociale; avevo certezza delle mie capacità di impegno personale ed obiettivo di fronte a chi avesse patito accuse ingiuste o rivendicato un diritto negato.

Quando si è resa conto di essere la prima avvocatessa nel tribunale di Locri?

Erano gli anni 70/’80, e non si era ancora affermata una trasformazione culturale più completa che rivalutasse il ruolo della donna, oltre le più consuete professioni femminili e ancor più in quella legale, del tutto appannaggio maschile. Sono stata il primo avvocato penalista donna del Tribunale di Locri, ma senza sgomitate gravi, io forte di contezza e di stima di me stessa, gli altri nel rispetto dovuto alla colleganza, con i tratti comportamentali della propria educazione e cultura.

Lei è entrata in un mondo prevalentemente maschile, si è sentita considerata inferiore rispetto ai suoi colleghi uomini? Se sì, come ha reagito?

Per qualche anno io ero, per gli avvocati maschi, la segretaria dello studio legale del carissimo avvocato Guido Mazzone che è stato il primo a credere in me, ma oltre le incombenze burocratiche mi presentavo molto motivata alle udienze e assorbivo tanto dal dibattimento. Volevo apprendere e affinare i percorsi procedurali, non solo quelli tecnici, ma anche quelli suscettibili dell’impronta più umana delle varie figure e situazioni che il dibattimento proponeva. Probabilmente, ho suscitato qualche curiosità e forse anche perplessità ma, sempre in silenzio ho glissato su qualche sguardo inficiato di pregiudizio. Anche perché io sapevo che avrei fatto l’Avvocato.

Si ricorda il suo primo caso?

Il primo caso penale l’ho affrontato a partire dalla fiducia che un giovanissimo imputato, incuriosito, mi accordò per avermi una volta incontrata in tribunale. Ho studiato il caso, ed ho sostenuto la tesi della “rapina impropria”, così che la violenza apparve conseguenza del fatto e portò ad una pena veramente mite con (l’allora) libertà provvisoria. Un primo concreto risultato professionale che fu un vero adempimento esistenziale positivo e che mi proiettò in nuovi impegni di difesa.

Può raccontarci della sua soddisfazione più grande; quale, invece, è stata la sua delusione o il suo rammarico?

Sono state molte le soddisfazioni, un’affermazione che si concretava non solo nelle sentenze che avevo auspicato, ma anche nella stima dei colleghi, alcuni dei quali frequentemente mi chiedevano un confronto di analisi dei vari casi in esame. Quali sono state quelle più care? Tante. Ma una in particolare: alcuni anni fa, in Corte di Appello, il Procuratore Generale esordì dicendo che ringraziava la difesa per avergli impedito, con i motivi di appello, di continuare a perpetrare una ingiustizia. Il Tizio, dopo circa quattro anni di carcere, è stato assolto. Non mi era mai capitato e, ovviamente, è stato uno dei miei momenti più belli come difensore. E sono stati tanti i momenti di delusione e di rammarico per avere dato tanto, energie e tempo e dedizione assoluta, ricevendo infine indifferenza e incomprensioni. Ma sapevo che tutto faceva parte del mio percorso che avrei portato fino in fondo.

Nel corso degli anni com’è cambiata la professione di avvocato penalista?

Nel corso degli anni, soprattutto dopo le innovazioni del Nuovo Codice, la professione dell’avvocato penalista è cambiata molto. Non me ne voglia qualcuno: ma credo che il processo, per quello che rappresenta, abbia perso la sua sacralità e, soprattutto, la sua umanità

Che consigli darebbe a una ragazza che vuole intraprendere la sua stessa professione?

Oggi, ad una giovane donna che sia motivata e interessata alla professione forense raccomanderei di continuare ad essere sé stessa, di coltivare curiosità intellettuale e passione e di prepararsi a una costante sfida contro le troppe ingiustizie del nostro tempo. E ancora le augurerei di mantenere animus e anima, coraggio e sensibilità. Bisogna credere in noi stessi e nei nostri sogni. Si, è vero, alcuni sogni muoiono, ma bisogna aggrapparsi a quelli che restano e che costituiscono il nostro coraggio.

Le donne che preferiscono le raccomandazioni o altre scorciatoie simili non tendono, secondo lei, a distruggere le battaglie intraprese dalle altre donne per ottenere i loro diritti?

Penso che una donna che scelga un percorso più breve e facile per affermarsi nella professione forense non disponga di personalità affermativa e buoni strumenti culturali e, neppure, dell’onestà intellettuale che deve sempre sostenere l’azione di un avvocato. Per me, non è una questione di genere, ma ritengo invece che il compromesso sia sempre avvilente.

Quali sono i sogni che ancora vorrebbe realizzare?

Il mio desiderio è forse ormai una forma residuale di quei tanti sogni che ho nutrito, in buona parte sfuggiti o rarefatti, e di alcuni che piuttosto mi sono stati negati. Vorrei una scuola per giovani avvocati, dove si potesse cercare e costruire insieme un nuovo sistema di lettura e di organizzazione del sistema giuridico in aula: contraddittorio, esame…. Una scuola quasi socratica, dove ciascuno possa essere accompagnato alla conoscenza attraverso la scoperta, conservando humanitas e mitezza, e si prepari a momenti che, se di antagonismo devono essere, siano sempre nel rispetto dell’uomo, prossimo mio.

 

 

 

 

 

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