Questa mattina è morto, gli Ospedali Riuniti di Reggio Calabria, dove era stato ricoverato in gravi condizioni, Otello Profazio cantante folk. Mario Alberti ricorda, quando da bambino, in una camera d’ospedale, si è commosso ascoltando “La canzone del ciuccio”.
Mario Alberti
Non ho mai amato la musica folk, per quanto la poesia cruda, soltanto apparentemente musicata ma stabilmente di significato, di Otello Profazio, scomparso oggi, sia stata piuttosto significativa per la Calabria.
E come tutti i passaggi verso l’ignoto, ciò apre un vortice di ricordi.
Un gorgo che risucchia all’indietro chi ricorda.
Cerchi concentrici nell’acqua del tempo.
Ricordo il primo anno che da Palizzi venni a Melito, già cittadina. Era il 1968, che sarà ricordato da tutti come anno di rivendicazioni del diritto di ascolto e coinvolgimento da parte delle giovani generazioni dell’epoca. Io lo ricordo per come può ricordarlo un bambino di sette anni, sbarcato dalla Stazione insieme ad altri migranti sanitari.
Alcuni per curarsi, altri per lavorare, quando L’ospedale era funzionante al massimo.
E dava lavoro e cure.
Mio padre era un operatore sanitario, quindi non vissi l’angoscia della malattia.
Soltanto quella della diaspora dal paese dell’infanzia, che non dimentica mai.
Rimane dentro diventando irrisolvibile nostos.
Ecco, come arriviamo all’Otello calabro?
I miei genitori, per lenire una malinconia precoce non presente, nel dettaglio, nei manuali di neuropsichiatria infantile, mi regalarono una specie di grammofono degli anni Settanta.
Non ancora stereo, ma non più con quella specie di tromba sulla destra.
Ed alcuni quarantacinque giri in vinile che adesso farebbero la gioia dei collezionisti.
Certo, se sapessimo il valore che potrebbe assumere un oggetto, non butteremmo più nulla.
Se avessi saputo il valore di memoria e nostalgia che avrebbero potuto assumere gli oggetti, non avrei buttato più nulla.
La malinconia non ha prezzo.
Ecco, uno dei quarantacinque giri era la canzone del ciuccio, di Otello Profazio.
In buona compagnia, se ricordo bene, di Mina, Massimo Ranieri e Mino Reitano, nel pacchetto regala anti nostalgia.
Bene, da bambino, piansi ascoltandola.
Di un pianto leggero e dolce, perché il dolore del proprietario del ciuccio morto, che piangeva l’animale più della moglie, era una sofferenza empatica.
La prima empatia provata.
Pensai agli uccellini che morivano cadendo dalla grande palma, nel terrazzo di Palizzi.
Al cane nero come quello di Malinverno che scendeva dalla collina e veniva sotto la porta di casa a chiedere da mangiare.
Non colsi le allegorie e le metafore, l’importanza del ciuccio per un calabrese rurale degli anni Sessanta.
E colsi ancor di meno l’impietoso paragone con la moglie morta, che non avrei mai potuto accettare.
Anche quello forse parlava del ruolo della moglie calabra negli anni Sessanta.
Ma non avevo i mezzi per capire, per approfondire.
Mi bastava piangere il ciuccio, gli uccellini, il cane, e il terrazzo di Palizzi.
E con la nostalgia che lava piano piano, l’animo di me bambino si adattava ad una nuova vita.
Buon viaggio Otello, non sarai certamente ricordato per queste vicende personali, altro non fosse che per una malinconia calabra che inevitabilmente ci portiamo dietro fino al termine dei giorni. Bensì per aver dato voce in poesia molto più attenta e raffinata di ciò che potesse apparire ad un popolo che non sa di essere musica, canto e teatro.