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martedì, Dicembre 10, 2024
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Calabria, terra moribonda ed incurata

La Riforma Cartabia, forse, servirà a non perdere i fondi europei, ma a null’altro per come è stata ridotta. Il punto è che la riforma più urgente neppure è stata dedotta, quella insomma, che giustifica indagini lunghissime e senza risparmio di fondi; che a volte consente ipotesi accusatorie spesso basate su indizi labili, da sottoporre comunque al giudice: aprendo così processi che giustamente indignano i garantisti, che neppure riusciamo a gioire al momento dell’assoluzione

Da emigrato bramoso di Calabria, col desiderio ormai irrefrenabile di pagare un debito alla mia terra, mi immischio in un dibattito portato avanti con coraggio, stante la delicatezza del tema, da un «piccolo giornale di provincia (anzi di “Strapaese”) come “Riviera”»: così Ilario Ammendolia, domenica 8 agosto 2021, riprendendo quel filo che da Nicola Zitara a Pasquino Crupi, tramite lo stesso Ilario Ammendolia, aggiungo io, è giunto fino a noi.

La questione meridionale si è voluta irrisolvibile ed è irrisolta ancora oggi. La sensazione che vive la gente di queste latitudini, e lo testimonierò meglio domenica prossima, è quella di una costrizione assoluta, senza nessuna soluzione, se non l’emigrazione: che è stata economica e proletaria fino agli anni Settanta, alimentando la richiesta di mano d’opera al Nord Italia, in Belgio, in Germania; intellettuale da allora in poi, svuotando le case dei “Corsi” dei nostri paesi, perché l’abbandono questa volta era dei figli delle classi fino ad allora dirigenti e poi dei giovani più ambiziosi e dinamici. Effetto tragico: svilimento ed umiliazione dell’agricoltura; e competenze e cervelli regalati ad altre realtà ed economie per undici mesi l’anno.

Il nostro Sud, la Calabria in particolare, è lasciata moribonda ed incurata.

Noi calabresi ci mettiamo molto del nostro, cercando una via di sopravvivenza (io per primo, emigrato a Roma nel 1971), invece di ribellarci. Ma dallo Stato nessun aiuto, se non l’equivoco di additare nella criminalità organizzata, la temibile ‘ndrangheta, l’origine e la causa di tutti i mali e della situazione drammatica che non si evolve.

È una realtà, ribadito il concetto che la ‘ndrangheta è il cancro assoluto e che debba essere estirpata, che sia risultato comodo alla politica, nazionale soprattutto, scegliere un metodo di contrasto solamente giudiziario, che nell’abbondante terzo di secolo di antimafia ha portato ad arresti eccellenti ma, a mio avviso, neppure ha scalfito il fenomeno. È un mio pensiero che ho più volte espresso e che qui ribadisco: la giustizia può intervenire soltanto per punire un reato commesso; solamente la politica, ed una efficace politica sociale, può contrastare il fenomeno mafioso, prevenirlo e creare un’alternativa.

Certamente l’azione giudiziaria non è stata indifferente alla mafia. Ma questa l’ha assorbita, ha incassato i colpi, è cambiata.

Sono esatte le intuizioni del Procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri.

La commistione affaristica tra mafia e taluni ambienti della società e della politica, non è una novità, ed era già stata rilevata e denunciata in passato, fin dal ventennio fascista, ovviamente dagli oppositori del regime.

Il mutamento vero è lo spostamento del centro degli interessi mafiosi verso il nord ricco dell’Italia e dell’Europa e qui l’uso, addirittura entro i confini della legalità, degli strumenti finanziari e fiscali (Roberto Saviano – “La Moccromaffia” sul Corriere della Sera del 2 agosto 2021, con riferimento a note multinazionali, rimprovera l’Olanda: «Sostanzialmente: permettete a tutte queste società di evadere il sistema legale dei loro Paesi, gli date assistenza territoriale e chiedete in cambio una piccola percentuale»).

La Riforma Cartabia, mi ripeto, forse servirà a non perdere i fondi europei, ma a null’altro per come è stata ridotta. Lo sa benissimo la Ministra stessa, che ha invitato i giudici a non rilasciare più dichiarazioni, specie su leggi all’esame del Parlamento e di limitarsi al loro compito di applicare la legge. Evidentemente irritata per l’influenza (indebita: il giudice applica la legge, non contribuisce a crearla) che hanno avuto le dichiarazioni dei procuratori antimafia e del CSM per procrastinare di decenni le prescrizioni per i reati di origine mafiosa: aggravante che, è facile prevedere, sarà largamente contestata nel meridione.

Il punto è che, ovviamente a mio sommesso avviso, la riforma più essenziale ed urgente neppure è stata dedotta, se pure sia stata pensata, forse perché di rango costituzionale. Mi riferisco al precetto (articolo 112 Costituzione) che obbliga il pubblico ministero ad esercitare l’azione penale. La norma, insomma, che giustifica indagini lunghissime e senza risparmio di fondi; che a volte consente ipotesi accusatorie spesso basate su indizi labili, da sottoporre comunque al giudice: aprendo così processi che giustamente indignano i garantisti, che neppure riusciamo a gioire al momento dell’assoluzione: l’ultima, clamorosa, quella dell’Onorevole Antonio Caridi dopo diciotto mesi di carcere preventivo, dal mio punto di vista una barbarie, ed anni di processo.

Perché, e ritorno ad Ilario Ammendolia, non serve indignarsi con la pubblica accusa per la prevalenza delle assoluzioni sulle condanne, dopo processi ed ipotesi accusatorie che sconvolgono la vita. Al singolo procuratore si potrà imputare una maggiore o minore sensibilità, null’altro. Il giudice applica la legge, ed è il legislatore che consente questo modo di agire.

Sta emergendo un indirizzo giuridico, secondo cui, fermo l’obbligo dell’azione penale, si deve arrivare alla imputazione formale, solo quando si ipotizza che l’accusa possa portare alla condanna, quanto meno sulla base del “Più probabile che non”. Insomma, anche il processo è pena.

“In dubio pro reo” è un brocardo, oggi dimenticato che, invece, andrebbe sempre applicato: anche il minimo dubbio sulla colpevolezza dovrebbe portare alla massima prudenza, perché è meglio un probabile reo libero, che un innocente in galera.

Ma fino a quando questo non accadrà si potrebbero anche avere 500 assoluzioni su 500 imputati: sarà sempre replicato che il sistema ha funzionato: l’azione penale era obbligatoria; i magistrati giudicanti hanno rigettato le richieste di condanna.

Tutti contenti, tranne l’innocente che si è venduto la casa per difendersi in giudizio, ed ha avuto la vita irrimediabilmente sconvolta.

Tommaso Marvasi

 

 

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