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Conversazione con Saverio Strati

Intervista a Saverio Strati, già pubblicata nel 1984 sulla pagina culturale di Oggi Sud, diretta da Pasquino Crupi.

 “La mattina, appena mi sveglio, non so proprio come si svolgerà la mia giornata: scriverò, leggerò…? Dipende dagli umori, che sono incontrollabili. Groddeck, nella sua affascinante opera “Il libro dell’Es”, dice che noi uomini siamo dei fenomeni vissuti da altri fenomeni che stanno dentro di noi…”. Così esordisce Saverio Strati rispondendo a una mia domanda che tenta di aprire un varco nell’impenetrabile pianeta-Strati.

Della “meridionalità” ha mantenuto il riserbo, la volontà di discrezione nella dimensione privata. È sfuggente e diplomatico nell’eludere alcune domande, o magari solo nell’aggirarle.

Nei suoi libri salta agli occhi del lettore una personalità ribelle. Nella nostra conversazione emerge, anche se in termini di lapsus – e lo nota egli stesso, con una pausa di autocritica – il riferimento al destino, tanto vituperato nella sua produzione letteraria. “Ognuno di noi, se capisce i suoi genitori, e anche i suoi nonni, può intuire il suo avvenire … stavo per dire… il suo destino”.

Lo scrittore, pur avendo “messo fuori causa, senza complimenti e nostalgia regressiva” (Pasquino Crupi, “L’uomo, la donna, il letterato”) i padre-padroni, rimane ancora legato al mito, tutto meridionale, dell’uomo-padre produttore di cultura e quindi soggetto storico pressoché unico: “più di tutti conta il padre, che rappresenta la cultura, la storia da portare avanti…”. Questo – nonostante “i suoi romanzi camminino sulla gambe degli uomini, ma anche sulla gambe delle donne” (P. Crupi, cit.) – fa pensare che lo scrittore, pur con le sue Dora e Gretchen, non abbia sciolto del tutto il nodo con la vecchia mentalità.

Ma continuiamo la nostra conversazione.

A proposito delle sue opere, si è parlato di “naturalismo meridionale”, di “neorealismo”. Lei come si definisce?

La critica da spesso definizioni di comodo. Ancor oggi si continua a dare del “verista” a Verga o del “naturalista” a Cechov: nulla di più errato. Ora, lei mi chiede come mi definisco…, ma è molto difficile autodefinirsi. Le ripeto una frase di Holderlin, che, parafrasando un pensiero del suo amato Hegel, dice: “Tutto ciò che è poetico è reale”. Con questo, intendo dire che l’arte rappresenta una realtà che può essere quella del mondo oggettivo trasfigurato dall’invenzione creativa o quella dell’anima segretamente nascosta dentro l’uomo e che l’artista porta alla luce, rende leggibile.

Rispetto alla grande tradizione del romanzo meridionale, lei si sente un innovatore o un continuatore?

Lei mi fa una domanda alla quale mi riesce difficile rispondere senza sembrare immodesto. Come faccio a dire che mi sento innovatore …? Peccherei di presunzione, e potrei incorrere in un ridicolo sbaglio. Devono essere gli esperti a dirlo, esaminando accuratamente i miei romanzi.

“Destino” e “Rassegnazione” sono termini frequenti nella narrativa meridionale, ma nei suoi libri tutto questo è rifiutato, c’è ribellione profonda, viscerale, risolutiva. Ciò, fino a che punto è frutto della volontà, dell’energia, della rabbia dell’uomo-scrittore che si proietta nei propri scritti, e fino a che punto corrisponde a una realtà oggettiva?

Sì, nei miei libri c’è ribellione, e c’è la rabbia che si è accumulata attraverso i secoli nell’animo collettivo dei poveri, sfruttati e ingannati dalla classe dominante fino all’esasperazione. Io, questa rabbia e scontentezza le ho assorbite e vissute mentre facevo l’operaio: la mia mente le ha registrate, e quando sono stato in grado di esprimermi con la parola scritta, sono emerse con forza. Sono l’espressione di quanto covava da tempo fra le masse lavoratrici della nostra regione.

Come mai, pur vivendo fuori dalla Calabria, nella sua produzione letteraria non si stacca mai dal suo vecchio mondo? È una volontà precisa – quella, cioè, di caratterizzarsi come narratore meridionale, calabrese – oppure ci sono esigenze autobiografiche di chiarimento?

Non mi stacco mai dal mio mondo perché esso non si stacca da me: è dominante nella mia formazione, e mi si impone. Il rapporto emotivo che ho con la mia terra è proprio questo. Non c’è la volontà di dover fare una data cosa: in arte, la volontà, per quanto ne so, non ha alcuna funzione. Montale diceva: “io non conosco la poesia, è la poesia che qualche volta cerca me”.

Nelle sue opere, lei ha fatto un’operazione di “traduzione linguistica dialetto-italiano” piena di fascino. Ce ne vuole parlare?

Non c’era scelta. Dovevo inventarmi una mia scrittura per esprimere il mio mondo; non potevo certo servirmi della lingua letteraria, non potevo mettermi a toscaneggiare: i personaggi sarebbero stati falsi, di cartapesta. E invece, dovevano presentarsi con la loro identità, con la loro condizione umana. E ciò, ovviamente, implicava un parlato, una lingua, che non poteva essere quella letteraria.

Cosa pensa dell’era dei computer lo scrittore della Kultur contadina, minatore delle caverne psichiche della meridionalità?

I computer servono al mondo della finanza, del commercio, degli uffici, del lavoro tecnologico, certo. Ma non servono al mondo delle arti, della creatività umana. Per  fare una buona pittura ci vogliono gli occhi e l’emozione dell’uomo che si inventa i colori e le immagini. Non ci sono computer che possono inventarsi la parola poetica. Forse potranno conoscere alla perfezione il vocabolario, sì, ma non potranno mai trovare quelle parole che, nascendo dal profondo dell’animo umano, diventano poesia. Ci sarà sempre, sino alla fine del tempo, questa è la mia ferma convinzione, qualcuno che racconterà dell’uomo e del mondo… E per raccontare dell’uomo e del mondo è necessario la presenza di narratori e poeti .

C’è una grande differenza tra i suoi personaggi e quelli di Alvaro: quello che in lei è ferita sanguinante, realtà sofferta, rabbia, furore biblico, voglia di fare e di andare, nello scrittore sanluchese diventa mito, elegia, rammarico, nostalgia, voglia di tornare. E comunque, c’è un punto di convergenza, tra voi?

Sì, c’è un punto di convergenza, che è la terra di origine, la Calabria, coi suoi drammi, la sua emarginazione, la sua cultura. Ma Alvaro forse ha espresso poco lo spirito della gente di Calabria. E comunque, dei problemi della Calabria e dell’Italia aveva visto e capito tutto.

Forse c’è un altro punto di convergenza: ne “il viaggio”, Alvaro scrive: “…parlando di mio padre devo in qualche modo parlare di me, perché alle fine, dopo la polemica  con la paternità, l’uomo finisce con l’assomigliare ad essa, confondersi con essa, continuarla”…

Ecco, sì. Credo di aver espresso più volte, naturalmente con altre parole, lo stesso pensiero di Alvaro. Non si può prescindere dal padre, ne assorbiamo per anni la presenza, l’atteggiamento, i pensieri, il timbro della voce, e, alla fine, lo abbiamo come modello quasi unico, quasi esclusivo, a cui, senza volerlo, e senza saperlo, rassomigliamo, soprattutto nel comportamento.

E anche Proust: “ Riceviamo dalla nostra famiglia  così le idee di cui viviamo, come la malattia di cui moriamo”. ….

In un certo senso, la frase di Proust è identica a quella di Alvaro, benché abbia un respiro più ampio. C’entra la formazione psicologica determinata dall’ambiente, dalla famiglia, c’entra l’ereditarietà del carattere … Siamo anelli di una lunga catena.”

Zina Crocè

 

 

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