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Così muoiono i vecchi

Bruno Gemelli ci accompagna alla scoperta di Pasquale Cavallaro e della Repubblica Rossa di Caulonia, noto fatto storico tutt’oggi studiato dagli esperti.

Bruno Gemelli

Le ultime confidenze del rivoluzionario Pasquale Cavallaro furono raccolte dal primario Salvatore Gemelli (solo omonimia con il sottoscritto), letterato e umanista prematuramente scomparso. Era il 1972, e il geriatra tratteggiò la personalità di alcuni suoi pazienti nel saggio “Così muoiono i vecchi” (Effemme, 1977).

Un passo del libro recita: «Fino all’ultimo dei suoi giorni, nei suoi ripetuti ricoveri, il professor Cavallaro, mi parlò di paure, di appostamenti, di vendette. Sul suo viso, nel suo corpo, allora, la malattia appariva come un fatto secondario, un epifenomeno di più atroce lotta interiore. Cercai “i Canti” di Pasquale Cavallaro, pubblicati nel 1920; la loro lettura completò l’inquadramento della figura di quest’uomo straordinario, e conferì un carattere d’ancestralità e una coloritura profetica al suo dolore».

Il primario colse nel segno.

Il 1973, all’età di 82 anni, Cavallaro si spense portandosi dietro qualche segreto che neppure il confessore-geriatra volle svelare giacché anche lui da lì a poco avrebbe trovato prematuramente la morte a causa di un male incurabile. Salvatore Gemelli nacque ad Anoia Superiore, nella Piana, il 7 settembre 1939 e morì a Locri il 17 marzo 1988, sconfitto in poco più di un mese da un male incurabile.

Ma chi era veramente Pasquale Cavallaro? L’interrogativo non è banale giacché egli ebbe tante definizioni. Ribelle, romantico, barricadiero, rivoluzionario, utopista, idealista, eroe, comunista, avventuriero e persino “ndranghitista”. Ma anche Don Chisciotte, Robin Hood, Robinson, eccetera eccetera. Nel maggio del 1968 rilasciò un‘intervista al giornalista e scrittore Sharo Gambino, il quale fissò la lunga conversazione su cinque nastri di un registratore Geloso che gli aveva prestato un amico. Un colloquio inoppugnabile. Una conversazione pregnante, una sorta di biografia orale. L’unica intervista organica rilasciata dal rivoluzionario a un comunicatore. I due si parlarono con il voi, la modalità calabrese per eccellenza.  Gambino pubblicò lo scoop in cinque puntate sul periodico “Calabria oggi” diretto da Pasquino Crupi.

«Ricordo l’emozione che mi prese quando – annotò Gambino – nel 1962, ricevetti la prima lettera di Pasquale Cavallaro, il quale, nel ringraziarmi di una recensione ad un suo libro di poesie dialettali (“Lu comizio di li lupi”), mi manifestava stima e simpatia. Emozione perché Cavallaro, divenuto un personaggio storico, io me lo portavo dentro fin da bambino, da quando, vale a dire, ne avevo inteso parlare (lo scrissi in “Fischia il sasso”) da un maestro di scuola su compaesano, il quale, conversando con mio padre, menava vanto di avergli dato uno schiaffo. Così, ai tempi della “Repubblica”, Pasquale Cavallaro era già per me familiare, anche se, questa volta, mi faceva paura perché era comunista e perché voleva portare il comunismo in Calabria e poi in tutto il Meridione. Avevo quasi vent’anni, tutti vissuti sotto il fascismo ed ero imbottito di propaganda anticomunista. Perciò respirai sollevato, allorché dalla radio appresi che i moti di Caulonia erano stai soffocati grazie all’intervento dei carabinieri armati e che Cavallaro era stato arrestato. Passarono degli anni. Una quindicina. Nel frattempo, io avevo tradito la pittura, con la quale avevo amoreggiato fin dall’età di sei anni, per innamorami della carta stampata. Scrivevo e scrivevo a fiumara, interessandomi di tutto, anche di critica letteraria; ed il mio nome era assai frequente sulle pagine dei cinque o sei quotidiani ai quali collaboravo. Frattanto avevo anche riveduto, sia pure con grande travaglio, le mie idee politiche e mi ero trovato uomo di sinistra. Cavallaro e tutti i comunisti e tutti i socialisti non mi facevano più paura, ma li sentivo fratelli nella speranza di un uomo migliore, dove non ci sarebbero stati più sfruttati e non ci sarebbe stata più gente abbandonata come quella di Cassari, dove ero andato a insegnare e a dirigere un centro di cultura popolare e in mezzo alla quale avevo maturato la mia crisi politica. Perciò scrissi la recensione che aveva entusiasmato Cavallaro; il quale, da quella volta, mi divenne grande amico. Quell’amicizia fu suggellata da una visita che io feci a Cavallaro in un nebbioso pomeriggio del marzo 1964, ventesimo anniversario dei moti di cui egli era stato il protagonista maggiore e il grande ispiratore. Ci intrattenemmo per un’oretta, in quella sua stanza disadorna, povera, ricca solo di libri. E quando tornai via, avevo il rimpianto di aver perduto l’occasione di un lungo discorso sulla “Repubblica”.  Un discorso che avrei senz’altro fatto se avessi avuto un registratore. Si sarebbe rinnovata la possibilità di un nuovo incontro con Cavallaro? Rimuginavo questo mio cruccio mentre, a piedi, arrancavo verso Caulonia Marina, dove, più tardi, sarebbe venuto l’amico con cui, sulla sua auto, sarei rientrato a casa. A quei tempi non era facile arrivare a Caulonia, poiché non avevo l’auto e per muovermi approfittavo di fortunate circostanze, che erano davvero rare. Ma quando, finalmente, risparmiando misi le mani sul volante di una “500” mia, non ci fu strada della Calabria che non mi vedesse passare veloce e avido di conoscenze calabresi. Tornai a Caulonia. Era una stupenda giornata di fine maggio 1968 e con me c’era l’amico professor Peppe Loiacono col suo nuovo registratore e cinque o sei nastri magnetici che a sera ci saremmo riportati indietro trasformati in un documento storico. Cavallaro parlò per ore e ore, calmo, senza bisogno di appunti (aveva la lingua sciolta e pensiero lucido così come il ricordo), a braccio, come si dice in gergo giornalistico. Si interrompeva, però, di tanto in tanto per riposarsi (ormai sfiorava i 75 anni) e riprendere fiato».

Così Gambino. Mentre Cavallaro disse di sé: «La gente mi ha giudicato in modi diversi; i nemici ideologici non potendo addossarmi atti peccaminosi, colpe delittuose ne hanno inventate di tutti i colori ed io ho sempre lasciato correre, ho risposto con la condotta diametralmente opposta a quella che essi avrebbero voluto far risultare. Taluni mi indicavano come un delinquente, anzi un capo di malavita perché così avviene quando contro un individuo preso di mira non si hanno fatti reali da imputargli».

Infatti, la parte più controversa dei tanti appellativi riservatigli da nemici e studiosi è stata sempre la sua presunta appartenenza alla malavita. In un altro passo della conversazione con lo scrittore di Serra San Bruno il rivoluzionario caulonese affermò: «A Caulonia io conoscevo per esperienza i dolori della povera gente, le umiliazioni e le forme con cui la povera gente ha reagito. Io pensavo e concludevo che questa forma delittuosa, l’onorata società, seppure non sempre delittuosa, era la maniera con cui la gente reagiva. Di questo io mi ero reso conto fin dalla prima giovinezza e dato che persecuzione non mi lasciava mai respiro, mi son trovato ad aver contatti con questi gruppi. Non ho disdegnato, tutt’altro; ad approfondire questi contatti, la esperienza di questi contatti». Lo stesso figlio Alessandro nel suo libro scrisse: «Gli si addebitavano anche rapporti con la ‘ndrangheta e certo ne ebbe, per la natura della sua vita avventurosa che lo portò, quasi per forza di cose, a intrecciare legami anche con gente che operava al di fuori della legge, quando l’unica legge era quella dei padroni: non fu né un mafioso né uno ‘ndranghitista».

Gli ultimi anni della sua vita Pasquale Cavallaro li passò all’ospedale geriatrico di Gerace che era ubicato in un convento del 1347 dedicato a Sant’Anna. Oggi quel presidio ospedaliero non c’è più, ma i resti del monastero sì. Negli anni ’90 l’allora Usl di Locri costruì un edificio, giù nel borgo, che però non è mai entrato in funzione. Una delle tante cattedrali nel deserto.

La vita di Pasquale Cavallaro è stata un romanzo. Di un uomo che si auto-definì un “rivoluzionario nato”. Per la penna di un Hugo o di un Dumas.

Venne al mondo il 21 aprile 1891 da una famiglia un poco agiata di “massari” residente in un luogo sperduto della Calabria, una zona impervia che fiancheggia le sponde del fiume Allaro, San Nicola di Caulonia, sulla costa jonica reggina (la Locride, per intenderci). Cominciò a studiare nel seminario di Gerace dove fece amicizia con Corrado Alvaro e con Gennaro Amato. Quest’ultimo, fattosi prete, divenne parroco di Focà di Caulonia. La sua uccisione fu attribuita dai carabinieri a Ercole Cavallaro, mentre il giudice istruttore indicò nel padre Pasquale il presunto mandante del delitto, provocando la scintilla dei moti caulonesi. Dopo Gerace Cavallaro passò, a 13 anni, nel seminario di Catanzaro per completare la formazione, e nel capoluogo Cavallaro e Alvaro ebbero modo di conoscersi meglio. A 18 si recò in America; un passaggio importante perché le poche parole di inglese imparate nel suo soggiorno negli States gli servirono per convincere gli Alleati, che pure lo sapevano comunista, a eleggerlo, nel 1944, prima commissario e poi sindaco di Caulonia.

Internazionalista ma anche patriota, nel 1918 partì volontario sul fronte nella Prima guerra mondiale dopo essere fuggito dalla comoda infermeria dell’ospedale militare di Bari, dove era ricoverato, per ritornare in prima linea. Lo Stato lo nominerà Cavaliere di Vittorio Veneto solo in punto di morte. Ritornato in paese prese l’abilitazione diventando maestro elementare; ma il fascismo lo spedì, dal ’33 al ’37, al confino di polizia, prima a Ustica (dove prese i primi contatti con l’antifascismo italiano) e poi a Favignana. Perso l’insegnamento pubblico si dedicò a quello privato e, contemporaneamente, si diede da fare organizzando clandestinamente il Partito comunista locale. Divenne così il punto di riferimento di tutto il comprensorio.

Il 18 giugno 1946, com’è noto, fu proclamatala Repubblica Italiana. Un anno prima c’era stata, come una sorta di meteora proletaria, la cosiddetta “Repubblica di Caulonia” che qui si narra. Ma il sogno rivoluzionario si era infranto nella realpolitik staliniana di Yalta sebbene, già si prospettava la svolta togliattiana di Salerno dell’aprile 1944. Cavallaro, incontrando Togliatti a Napoli in via Medina, credette che la rivoluzione si sarebbe fatta veramente; non accorgendosi, o fingendo di non accorgersi, del “contrordine compagni” lanciato proprio da Togliatti che appoggiava il governo Badoglio.

Sicché in Calabria, a scoppio ritardato, nacque e morì, nel volgere di cinque giorni, la cosiddetta “Repubblica rossa”; la cui incubazione fu ben più lunga. Durò almeno quattro mesi. La democrazia ancora in fasce andava registrando una pagina di storia tra le più tormentate del dopo-guerra. Sono passati tanti anni, ma il ricordo di quella vicenda è ancora vivo ed è oggetto di approfondimento da parte degli storici. Dal 5 a9 marzo 1945 nel grosso centro agricolo della Locride si scrisse, appunto, un evento epico. Una rivoluzione proletaria, impossibile, tentata e poi «tradita», come ebbe a definirla lo stesso Cavallaro nel resto dei giorni che visse nel tormento dei ricordi.

Uomo dalla vita travolgente. Il suo percorso di vita s’intrecciò con la storia di miseria della Calabria contadina e con le utopie dogmatiche e proletarie del Partito comunista italiano.  Tanto che Stalin pare abbia detto, durante una trasmissione di Radio Praga, che «ci voleva un Cavallaro per ogni città». Sui fatti di Caulonia molto è stato detto e scritto, e ancora oggi quelle vicende sono oggetto di studio da parte di studenti che elaborano tesi di laurea attratti dalla figura del “condottiero” che in pochi giorni tenne in apprensione la nascente democrazia in una parte dell’Italia nella quale non c’era stata la guerra partigiana. Una notorietà, quella di Pasquale Cavallaro, che fece il giro del mondo con i mezzi di comunicazione a disposizione in quel tempo.

Caulonia visse in un fiato l’evento. Tutto accadde nel momento in cui, caduto il nazi-fascismo, si avvertì un anelito di riscossa e di rivalsa dei ceti popolari che pensavano che, con lo sbarco degli Alleati, il paradiso sarebbe stato a portata di mano.  Sulla rivolta mancata sono stati pubblicati molti libri, tra cui quello di Ilario Ammendolia e Nicola Frammartino, l’altro di Amelia Paparazzo e Mario Alcaro, e poi il pamphlet di Pasquino Crupi, Sharo Gambino, Enzo Misefari ed Eugenio Musolino, “La Repubblica rossa di Caulonia”. Quest’ultimo volumetto è molto importante perché da esso si ricavano testimonianze dirette di grande rilevanza. Tra cui le dichiarazioni dell’ingegnere Enzo Misefari (fratello del più noto anarchico Bruno Misefari) e dell’avvocato Eugenio Musolino. Questi furono, tra il ’43 e il ’45, i massimi dirigenti comunisti della federazione reggina.

Per riequilibrare la verità storica un ulteriore contributo arrivò successivamente dal saggio scritto, nel 1987, dall’ultimo figlio di Cavallaro, Alessandro. Che licenziò col titolo: “La rivoluzione di Caulonia”, edito da “Spirali” di Milano, la casa editrice di Armando Verdiglione (nativo di Agromastelli, una frazione di Caulonia), il guru miliardario che spopolò negli anni ’80 come filosofo e psicologo della new age del tempo. Lo stesso Alessandro Cavallaro pubblicò nel 2009 un altro libro, Operazione: “Armi ai partigiani” (Rubbettino).

In realtà chiudere la personalità di Cavallaro nell’esclusivo involucro della malandrineria è sbagliato; appare riduttivo e fuorviante per un uomo che ebbe la massima considerazione da parte di Togliatti, Terracini, Secchia e persino dal Politburo. In realtà Cavallaro rimase stritolato dalla doppiezza comunista che lo mandò avanti per poi abbandonarlo. La cosa è provata storicamente. Da qui la reazione della famiglia che vide e visse la rivoluzione fallita di Caulonia come il più alto dei tradimenti. La parola “tradimento” è stata, da Stalin in giù, un classico del lessico comunista, tant’è che Piero Fassino, nel suo libro “Per passione”, scrive: «Nella sinistra la tentazione di risolvere le contraddizioni e le diversità di opinioni ricorrendo alla categoria del “traditore” è antica e dura a morire».

Togliatti a quel tempo era ministro della Giustizia e non poteva certo, almeno ufficialmente (anche se mandò a Caulonia un telegramma), assecondare i sogni rivoluzionari di Cavallaro, ma è altresì sicuro che almeno sino al 1949 il Pci mantenesse una rete parallela clandestina. E così il protagonista rimase schiacciato dalla stessa macchina che aveva costruito attendendo invano che suonasse l’ora della rivoluzione. Dai compagni di Reggio Calabria arrivò solo l’acqua per spegnere l’incendio e l’occultamento delle carte compromettenti.

Le doti di coraggio di Cavallaro furono notevoli e la sua fama si estese per tutta la regione, non avendo egli paura di nulla e di nessuno. Più volte, soprattutto da giovane, fu oggetto di attentati che rintuzzò con ardore come quella volta, durante una rissa, nella quale con un nervo neutralizzò trenta squadristi che lo volevano assalire.

Ebbe cinque figli. Libero, che diventerà il suo alter ego rivoluzionario, Ercole, il cui arresto da parte dei carabinieri scatenerà la rivolta del 5 marzo del ‘45, Vera, anche lei maestra elementare, Leone, morto dopo essersi arruolato nella Legione Straniera, e Alessandro, diventato uno stimato professore di filosofia. I nomi di battesimo dei figli sono tutto un programma. La colonna mnemonica della sua idealità. Il suo orizzonte immaginifico. I nomi dati ai figli raccontano la storia dell’uomo. Gli ultimi anni di guerra, nell’Italia divisa in due, vedono Pasquale Cavallaro impegnato a organizzare le sezioni del Pci, del Psi e la Camera del Lavoro di Caulonia. Un capo-popolo riconosciuto dalle masse popolari e temuto dalle classi benestanti che si erano subito riciclate da fasciste in democratiche nello spazio di 24 ore. In quel periodo egli organizza, nei paesi limitrofi, una fitta rete ingrossando un esercito di affamati che aspirano a liberarsi della catena della povertà. In un contesto di confusione, di utopie e di rivoluzioni a portata di mano avviene l’arresto del figlio Ercole.

E’ la scintilla che provoca lo scoppio. Ci fu una sollevazione generale nel circondario, uomini che scesero dai monti, risalirono le valli, in armi, per radunarsi intorno all’abitato di Caulonia; secondo alcuni fu lo sbocco naturale di un’organizzazione meticolosa già preparata (le armi erano state fornite dagli Alleati per combattere i nazi-fascisti) nei minimi dettagli, per altri (come racconta il figlio Alessandro) fu una sollevazione spontanea. Pasquale Cavallaro, delegò la parte militare al figlio Libero, mentre per sé tenne il compito di evitare che la rivoluzione debordasse oltre il dovuto. Ma la rivolta dei contadini e dei braccianti gli sfuggì di mano. Accaddero episodi di violenza in un clima sovreccitato. Un paio di questi episodi si trovano nell’intervista di Gambino.

Il primo giorno “repubblicano” il sindaco Cavallaro nominò un Tribunale del Popolo, composto da trecento cittadini, per redimere le ingiustizie che sarebbero state perpetrate dai “signurini” nel corso del tempo. Ebbene, mentre si processava lo spione di turno, lo stesso venne punito ricevendo in bocca lo sputo dei trecento giurati. Un gesto ripugnante. In un’altra occasione i rivoluzionari fecero fare una “corsarella” all’ingegnere Ilario Franco, «che aveva la pretesa di essere un superuomo», in mutande sotto la neve.

Ma il fatto più grave fu l’uccisione di un prete, don Gennaro Amato, dovuta, a parere di Cavallaro, a una tragica fatalità. Lo storico Paolo Spriano nella “Storia del Pci” (Einaudi) neppure cita l’episodio della morte del sacerdote che è fondamentale per capire la dinamica degli eventi che avrebbero poi portato alla sollevazione popolare. Al quinto giorno il rivoluzionario Cavallaro si arrese. Liberato il figlio Ercole per placare le acque vennero a chiedere la sua testa i socialisti Andiloro e Priolo, rispettivamente sindaco e prefetto di Reggio Calabria. Cavallaro accettò la resa ma chiese e ottenne che il suo successore fosse l’avvocato Musolino, segretario provinciale del Pci.

I fatti di Caulonia diventarono un caso nazionale. Il Parlamento nominò una commissione d’inchiesta che fu affidata agli onorevoli Gava (Dc) e Molinelli (Pci). I giornali ne parlarono per mesi. I rivoltosi (365) furono processati in primo grado a Locri, il 23/6/1947, in un ex pastificio trasformato per l’occasione in aula giudiziaria. Il processo fu poi trasferito a Cosenza per legittima suspicione (nel collegio di difesa ci furono gli avvocati Pietro Mancini e Fausto Gullo). La sentenza fu di amnistia per i trecento imputati mentre Pasquale Cavallaro, ritenuto il mandante del delitto Amato (i due esecutori materiali riceveranno una punizione severa), venne condannato a nove anni reclusione ridotti a sei, nel 1958, dalla Corte d’Appello di Catanzaro. Nel carcere di Catanzaro Cavallaro incontrò Ciccio Caruso, il dirigente del Pci di Crotone che era stato arrestato e prosciolto perché accusato di aver fomentato i contadini di Isola Capo Rizzuto.

L’idea iniziale di Cavallaro non era stata tanto bellicosa. Per tranquillizzare i moderati egli lanciò, il 25 ottobre 1943, la “defascistizzazione pacifica”, un proclama – ricordò egli stesso nelle memorie – «letto dall’avvocato Aldo Casalinuovo al tribunale di Catanzaro», e che aveva questo incipit: «Operai che non siete servi / contadini che non siete schiavi / benpensanti che non volete essere / né servi, né mercanti di schiavi / in piedi!».

Uscito dal carcere Pasquale Cavallaro rimase povero e solo, rifugiandosi a Roma nella casa del figlio Ercole. Lì ricevette la visita di Pietro Secchia, accolto, e di Giancarlo Pajetta, respinto. Il partito, a detta del figlio Alessandro, gli offrì un posto di impiegato a Botteghe Oscure che lui rifiutò sdegnosamente perché il tradimento non poteva avere un prezzo riparatore. Chiese al partito di poter vivere con i proventi delle sue pubblicazioni. Da Botteghe Oscure gli risposero che le sue opere non avevano valore letterario.

Doppiezza, crudezza e cinismo per un rivoluzionario scaricato dalla burocrazia comunista.

Il crepuscolo si consumò nel reparto di geriatria di Gerace dove avvennero gli intensi colloqui con il primario. Il depositario della sua avventurosa vita.

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