fbpx
sabato, Luglio 27, 2024
spot_imgspot_img
HomeArte,Cultura,EventiÈ davvero qui l’Altrove? È difficile ma dobbiamo provarci

È davvero qui l’Altrove? È difficile ma dobbiamo provarci

Tornate in questi luoghi dove la natura è splendida e i luoghi conservano ancora il fascino che una storia antica ha dato loro. I luoghi dei Greci, i luoghi dove la storia è passata con Erodoto, Pitagora, i luoghi che furono scelti per creare una Magna Grecia. Se gli antichi greci trovarono qui da noi le condizioni per innestare e fare evolvere la più feconda civiltà del mondo conosciuto, perché noi non dovremmo riproporlo?

 Tornate qui, tornate in questi luoghi dove la natura è splendida e i luoghi conservano ancora il fascino che una storia antica ha dato loro. I luoghi dei Greci, i luoghi dove la storia è passata con Erodoto, Pitagora, i luoghi che furono scelti per creare non una parva, ma una magna Grecia: così scrive l’amico Nilo.

I luoghi, appunto. E quasi sempre c’è una più o meno forte corrispondenza fra i luoghi e le persone: c’è fra la strafottenza dei cittadini di Roma e la loro storia così tracotante, fra l’irridente signorilità dei fiorentini e il Rinascimento, fra la freddezza degli Scandinavi e il clima dei luoghi del sole di mezzanotte.

E in qualche misura c’è anche in Calabria questa corrispondenza: l’asprezza della natura e dei luoghi sembra aver modellato il carattere dei calabresi. E dunque tutto torna? Non lo so, c’è sempre un però che accompagna le nostre analisi, un però che ci fa dire “questa cosa la vedo bene, però…”, “è stata una iniziativa positiva, però si poteva fare di meglio…”.

Sono un fautore del “però sempre”, un mai guarito pessimista; dunque, il meno adatto a seguire l’inguaribile ottimismo di Nilo: di fronte alle oggettive ragioni che lui indica per farci restare qui e, anzi, per indurre i giovani a non partire e, semmai, a tornare, ce ne sono altrettante per fare il contrario. Giusto per inciso, ho un figlio e cinque nipoti che vivono al Nord.

Mi scuserete, quindi, se partirò dall’altra faccia della medaglia.

Da cosa parto?

C’è un pessimismo storico e antropologico di fondo che mi induce a ritenere che non sempre la Terra (cioè il Creato) si adatti agli uomini che la vivono e viceversa, altrimenti non riesco a spiegarmi come sia potuto accadere che da tanta grande Storia di un passato lontano, che avrebbe dovuto modellarci, sia scaturito tanto male.

La distanza fra le origini greche e tutto ciò che è poi diventata la nostra terra – violente baronie, servaggio a nobili padroni, mezzadrie distorte, assenza di liberi comuni, lontananza dal Regno, amministrazione della giustizia affidata ai ceti nobiliari, difficoltà di collegamenti dentro un territorio aspro e difficile, terremoti devastanti (quello del 1783 cambiò i connotati fisiografici della Calabria Ultra), presenza asfissiante del potere temporale ecclesiastico, la farsa dell’Unità d’Italia e il violento saccheggio che ne seguì, la chiusura delle politiche meridionaliste, l’avvilente silenzio di chi dovrebbe farsi carico di un riequilibrio Nord – Sud… – è troppo evidente e chiama in causa convitati di pietra sistematicamente assenti e ben più colpevoli del più famoso convitato di pietra mozartiano.

La Calabria è rimasta una terra in cui è centrale l’azione pubblica, quella privata è solo parzialmente decollata e dunque, se lo Stato e la Regione latitano o, ancor peggio, fanno male il proprio dovere, la società tutta non decolla, anzi arretra. Massimo Tigana Sava, direttore della collana Local Genius, nell’introdurre il più che prezioso libro di Armin Wolf “Ulisse in Italia”, segnala con rammarico “…le istituzioni competenti che sono state colpevolmente disattente miopi o indifferenti rispetto al genio assoluto di Armin Wolf e all’opera Ulisse in Italia… Avrebbero dovuto informarsi, sollecitare incontri e confronti, approfondimenti e presentazioni, chiedersi come poter valorizzare al massimo i risultati di una vasta ricerca e di una teoria elaborata con rigore scientifico, che pongono la Sicilia e la Calabria al centro dell’Odissea, del viaggio di Ulisse e/o di Omero”.

 È pur vero che tentativi in chiave positiva ce ne sono stati: a partire dalla breve ma lontana esperienza della Repubblica murattiana dell’800, alla riforma agraria degli anni Quaranta del ‘900, all’intervento Casmez e a quello dell’Opera Valorizzazione Sila. Hanno cambiato molto, ci hanno fatto uscire da un’arretratezza medievale, ma nel frattempo il resto del mondo e dell’Italia è cresciuto più velocemente e oggi i numeri sono impietosamente negativi: pochi decenni fa eravamo 2,2 milioni di residenti, oggi siamo scesi a meno di 1,9 milioni, per lo più anziani e pensionati, siamo insomma meno di Milano.

Mi fermo qui, altrimenti l’analisi ci porterebbe lontano e i punti di confronto potrebbero diventare punti di scontro.

È che, forse, abbiamo una storia troppo grave e gravosa di cui non sopportiamo il peso; ci sono tante pagine aperte di libri chiusi troppo frettolosamente: dai pastori bruzi che combatterono i romani alle baronie, alla mancata costituzione dei liberi comuni, a un Risorgimento gattopardesco fino alla modestia della classe politica attuale…

Ricordando ancora le parole di Tigana Sava “…l’antico territorio della Magna Grecia ha in sé tutti gli anticorpi per non farsi soffocare dallo tsunami della globalizzazione intesa nella sua accezione più negativa. E proprio il grande disorientamento dei nostri tempi è la prova di una difficoltà di adattamento derivante dall’appartenere a una civiltà dalle radici profondissime”.

 Che rapporto hanno avuto o hanno con la Calabria i nostri figli migliori?

Non è facile condensare in poche cartelle una storia millenaria. Ci proverò.

Mi viene di partire dal giudizio amaro di Franco Arminio (in realtà è napoletano) – ricordato proprio da Nilo, quell’Arminio che Roberto Saviano ha definito “uno dei poeti più importanti di questo paese, il migliore che abbia mai raccontato il terremoto (quello di Napoli degli anni ottanta) e ciò che ha generato” – citando un suo passo: “Venticinque anni dopo il terremoto dei morti sarà rimasto poco. Dei vivi ancora meno”.

Noi di terremoti, metaforici intendo, ne abbiamo avuto invece pochi, è come se fossimo avvolti da una sonnolenza e un piatto assopimento, eppure stiamo a chiederci cosa è rimasto di quella grandezza di un tempo.

 Gioacchino Criaco è un nostro contemporaneo, nasce ad Africo, un piccolo paese nella costa ionica reggina. È figlio di pastori, in giovane età inizia a pensare a una nuova trattazione letteraria dell’Aspromonte. Dalla morte di Corrado Alvaro ci sono voluti vent’anni, perché si tornasse a parlare di Aspromonte, ma non per opere letterarie o questioni politiche, ma perché tra gli anni ’70 e ’80 dello scorso secolo l’impervia foresta montana è diventata luogo dei sequestri, fonte primaria di accumulo di danaro per trasformare la ‘ndrangheta nel più micidiale nodo del narco traffico del mondo. Criaco pubblica nel 2008 Anime nere, inaugurando il nero di matrice calabrese. Per la prima volta la gente di Africo ha avuto, grazie a lui, una narrazione dall’interno mentre, prima dei suoi libri, soltanto giornalisti di passaggio più o meno bravi raccontavano la loro difficile e complessa realtà con tante mancanze e gli inevitabili stereotipi. Criaco racconta e descrive un mondo al limite della civiltà che, nonostante sia dentro un più vasto territorio, continua a vivere di leggi e tradizioni proprie, a dimostrazione di una distanza fisica e politica forse irriducibile. A esempio, nel libro il Custode delle parole recupera dalla tradizione orale contadina un insieme enorme di vocabolario grecanico perso dovunque e che si parla(va) solo in Calabria.

Peccato che di quel mondo fondante sia rimasta solo la lingua.

Corrado Alvaro, dunque. Anche lui aspromontano, di San Luca, nasce da genitori della piccola borghesia e muore a Roma quasi 70 anni fa. Studia prima in un collegio esclusivo a Frascati e completa i suoi studi al Liceo Galluppi di Catanzaro. Partecipa alla Grande Guerra, è ferito a San Michele del Carso e dal 1916 inizia la sua intensa vita giornalistica e letteraria nel Resto del Carlino a Roma, seguono Bologna, Milano (dove nel frattempo si laurea in lettere), Parigi, è con Benedetto Croce nel Manifesto degli intellettuali antifascisti, poi è a Berlino, va in giro in Europa (Turchia e Unione Sovietica per reportage giornalistici). Ma non torna in Calabria, se non a San Luca nel 1941 per i funerali del padre. In compenso, torna più volte a trovare la madre e il fratello a Caraffa del Bianco. Dal 25 luglio all’8 settembre 1943 assume la direzione del Popolo di Roma. Braccato dai fascisti si rifugia a Chieti. Mi fermo qui: la sua vicenda letteraria è nota e il suo impegno civile fa di lui uno dei migliori figli calabresi. Aggiungo soltanto che è stato fino alla morte segretario del Sindacato Nazionale Scrittori e primo direttore del Giornale radio nazionale della Rai. Muore a Roma nel 1956 colpito da un tumore addominale. Non è sepolto in Calabria, ma vicino a Viterbo: per fortuna, i manoscritti delle sue opere sono stati acquistati della Regione Calabria e donati alla Fondazione Corrado Alvaro che ha sede a San Luca.

Corrado Alvaro non si era solo limitato nelle sue opere a strappare il sangue e il sudore della vita degli umili e disperati “Non è bella la vita dei pastori in Aspromonte, d’inverno, quando i torbidi torrenti corrono al mare, e la terra sembra navigare sulle acque. I pastori stanno nelle case costruite di frasche e di fango, e dormono con gli animali. Vanno in giro coi lunghi cappucci attaccati ad una mantelletta triangolare che protegge le spalle, come si vede talvolta raffigurato qualche dio greco pellegrino e invernale. I torrenti hanno una voce assordante”. È stato antesignano di una visione degli umili costretti in una gabbia asfissiante.

Corrado Alvaro nel 1955 scrive per il Corsera l’articolo “La Fibbia”, quando la mafia calabrese era ignorata. Subito dopo, nel 1956, esce il libro di Saverio Strati “La Marchesina”, ma ancor prima di loro, in quattro fogli manoscritti databili fra il 1942 e il 1945, si racconta di un omicidio ad Ardore Marina commesso da un veterinario, in una cornice di umanità avviluppata entro il più arcaico dei mondi e dominato da giustizia e consuetudini possibili solo dove lo Stato è assente.

Saverio Strati, dunque, altro calabrese illustre, un altro calabrese che se andò per non tornare più. Saverio Strati era nato nel 1924 a Sant’Agata del Bianco, sempre nell’area jonica, e lì visse fino a quando, ventunenne, ebbe la fortuna di poter riprendere gli studi che aveva abbandonato da ragazzo, costretto a lavorare da manovale e da muratore.  A venticinque anni si diplomò e s’iscrisse all’Università di Messina a Lettere e Filosofia, si trasferì a Firenze, poi in Svizzera, poi ancora in Toscana fino alla sua morte nel 2014 all’età di novant’anni. Il suo mentore fu Giacomo De Benedetti – di cui fu allievo – che fu colpito dal fatto che il giovane studente avesse con sé una copia di Quasi una vita, il libro con cui Corrado Alvaro aveva vinto il premio Strega. Col romanzo Il Selvaggio di Santa Venere Strati vinse il Super Campiello nel 1977. I problemi degli umili del Sud sono al centro dei suoi romanzi. Come ci ricorda Mimmo Talia, quella narrata da Strati è una “…collettività marginale impegnata nella continua ricerca di giustizia e di realizzazione delle proprie legittime aspirazioni. Aspirazioni personali e collettive di chi aveva soltanto braccia per lavorare e lottava ogni giorno per avere il necessario per vivere dignitosamente, osservando il progresso economico e sociale da lontano o cercandolo emigrando in luoghi distanti per geografia, lingua e cultura. Nella sua narrazione Strati ha raccontato persone e luoghi di un passato povero ma vitale, pieno di difficoltà ma con grandi aspirazioni di miglioramento sociale e civile. Una letteratura che merita di essere letta e studiata per comprendere meglio noi stessi e il nostro presente di crisi e di difficoltà, ma anche per cercare dentro quelle storie e quelle speranze un’idea di cosa potremo essere nei decenni futuri”.

Un solo commento su uno dei suoi libri più emblematici. NeIl selvaggio di Santa Venere”, un contadino calabrese di umile origine conosce il mondo durante la Grande Guerra e, tornato a casa, vuole per il figlio Leo una vita migliore, da uomo istruito. Ma il ragazzo si trova male a scuola e si ferma alle elementari; il padre per punirlo lo porta a lavorare con sé sui monti e il ragazzo cresce sempre più scontroso e, divenuto adolescente, conosce un ragazzo di un paese vicino che vive col mito della ‘ndrangheta. Leo vede nell’affiliazione a una ‘ndrina il modo per ottenere rispetto nella società e si fa iniziare. Se ne pente perché assiste a riti e vendette crudeli. Arriva per il giovane il momento del riscatto quando, arruolato allo scoppio della Seconda guerra mondiale, decide dopo l’8 settembre di aggregarsi alla resistenza greca. Tornato a casa si sposa e si tiene lontano dalla ‘ndrangheta. Si rende conto che ha sbagliato a non studiare e vuole rendere moderna la sua attività agricola coinvolgendo il figlio. L’ambiente calabrese, chiuso e condizionato dalla ‘ndrangheta, è da freno e il giovane figlio preferisce andare a fare il muratore al Nord.

C’è però in questa storia un elemento che potremmo definire di modernità: c’è la consapevolezza che un giorno, quando il padre non sarà più in grado di occuparsi dei suoi campi, lui dovrà tornare nella terra natia.

C’è poi la vicenda di Mimmo Lucano, più volte sindaco di Riace, posizionatosi terzo nel 2010 nella World Mayor dei migliori sindaci del mondo e, sempre nel 2010,  comparso al 40º posto nella lista dei leader più influenti della rivista americana Fortune. Evidentemente non era tanto influente, se il suo metodo innovativo per gestire i tanti rifugiati politici e gli immigrati in genere è stato fatto naufragare nel silenzio.  Nel piccolo paese noto per i Bronzi greci riuscirono a trovare accoglienza poco meno di 450 tra rifugiati e immigrati, lì stabilitisi accanto ai 1800 abitanti natii.

Il sistema d’accoglienza, chiamato appunto Modello Riace, consisteva e consiste in diverse azioni intraprese nel corso degli anni: aderire al sistema SPRAR, ottenere fondi regionali o mutui per la ristrutturazione delle case dismesse e attraverso le associazioni dare accoglienza e ospitalità ai rifugiati e ai richiedenti asilo che hanno potuto lavorare nel comune attraverso laboratori artigiani di tessitura, lavorazione del vetro, confettura. In attesa dell’erogazione dei fondi destinati all’immigrazione, tra le misure intraprese c’era la creazione della moneta locale l’Euro di Riace, una sorta di bonus di spesa utilizzabile anche dai turisti. Nel 2017, il modello coinvolgeva 550 migranti ospitati a Riace, ma dalla cittadina ne erano passati almeno 6000. Giusto per fare un confronto: durante la crisi umanitaria di Lampedusa del 2009, Riace, Stignano e Caulonia diedero disponibilità per 200 posti a confronto di Milano che si rese disponibile per 20.

Senonché, nella relazione del prefetto di Locri del dicembre 2016, si riferiscono anomalie nel funzionamento del sistema, da cui ha avuto origine una vicenda giudiziaria con accusa e condanna per truffa e concussione. Mi fermo qui, il discorso è giudiziario e politico (nel senso di presenza ingombrante di alcune forze e, per converso, assenza di altre forze). Questi esempi e numerosi altri ci mostrano quanto sia dura e difficile da noi avere fiducia in prospettive di sviluppo. Ma abbiamo il dovere di crederci e di mostrare strade possibili.

Vado, dunque, a concludere con la pars costruens, altrimenti qui non ci avrei dovuto mettere piede.

In Nuovo Cinema Paradiso, il bellissimo film di Tornatore, colpisce ciò che il proiezionista dice al giovane Salvatore prima che questi vada via “Vai via per sempre e non tornare mai più, bada solo a te stesso e alle tue aspirazioni, non pensare a nulla di relativo al tuo passato qui”. Così fa Salvatore, se ne va a Roma e diventa regista affermato, ha una vita di successo, di successo ma arida. Attraverso la nostalgia che riaffiora, comprende che il rimpianto per avere rinunciato a una vita carica di affetti non è ripagato da nulla.

E allora, viene da porre la discussione non più sul piano delle funzioni cosiddette fredde – legate cioè agli aspetti cognitivi e razionali – ma spostarci sul piano delle funzioni calde, quelle cioè legate alla sfera emotiva, degli affetti, avendo però consapevolezza che anche qui gli ostacoli che abbiamo innanzi a noi sono tanti.

Voglio dire che giorno dopo giorno assistiamo a superficialità, banalità, pressappochismo, disattenzioni, azioni ingiustificabili che erodono anche la scorza protettiva della sfera emozionale. Si prova o no un forte senso di ripulsa a vedere raddoppiati o quasi i compensi ai manager della più disastrata Sanità d’Italia? E come ci si sente a leggere dei soldi buttati nelle campagne turistiche promozionali basate su aspetti che allontanano anziché avvicinare gli altri alla nostra Terra?

Da dove partiamo allora? Da una consapevolezza: che la posta in palio è molto alta e che, come si dice nello sport, bisogna gettare il cuore oltre l’ostacolo, perché si parte da situazioni di forte handicap.

La fuga dalla nostra Terra non è per seguir virtute e canoscenza, semmai esportiamo virtute e canoscenza, né è una fuga alla ricerca omerica di un altro da sé; il richiamo all’origine e alle radici sembra essere connaturato alla nostra genia, se è vero che i cinquecentomila calabresi residenti a Toronto ricordano ogni parola del loro dialetto d’origine e ricordano più di noi tutti come si fanno i salami nel rito del maiale.

Il brand c’è, non bisogna cercarlo altrove, e bisogna ripeterlo fino a farlo diventare un mantra: se gli antichi greci trovarono qui da noi le condizioni per innestare e fare evolvere la più feconda civiltà del mondo conosciuto, perché noi non dovremmo riproporlo?

Turismo, agriturismo, turismo culturale sono gli elementi sui quali innestare le politiche dei prossimi anni.

Esperienze come quella di Riace devono essere riprese e corrette dagli errori che indubbiamente ci sono stati.

Rendere convinzione diffusa il concetto che i migranti non solo sono fratelli, ma ciò che loro possono fare per noi è molto di più di quello che noi possiamo fare per loro.

Adottare provvedimenti per dare a prezzo simbolico, con obblighi di riattamento e uso, edifici e vecchi alloggi abbandonati o dismessi.

Qui, da noi, dare centralità al toponimo Sibari.

Dare identità funzionale ai luoghi (Prato è tuttora il luogo delle concerie, Brescia quello delle fonderie, Fabriano delle cartiere…)

Fare sistema con chiunque voglia far parte del progetto: Regione in primis, Provincia, Enti locali, Università, Sovraintendenza, Museo, Associazioni…

Costituire sin da subito un comitato promotore.

Si può fare? È molto difficile, ma l’alternativa è il nulla.

Paolo Veltri

 

- Spazio disponibile -
- Spazio disponibile -
- Spazio disponibile -
ARTICOLI CORRELATI

Le PIU' LETTE