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Ferrovie dello Stato e ideologia della “diversità italiana”

Arriva lo spot clou di una campagna pubblicitaria del Gruppo Ferrovie dello Stato Italiane. “L’emozione di essere italiani”, “Noi italiani siamo diversi”: la propaganda, per quanto raffinata, non costruisce ponti sicuri né treni puntuali.

23 giugno 2025: presentazione dello spot clou di una campagna pubblicitaria del Gruppo Ferrovie dello Stato Italiane (FS). All’evento, tenutosi a Roma in Piazza di Pietra, non era presente il Ministro dell’Economia e delle Finanze da cui FS dipende, ma il segretario del suo partito: squilibrio tra rappresentanza istituzionale e presenza partitica che lascia intendere la direzione del messaggio e chissà — ma forse è sperare troppo — una presa di distanza del ministro.

Lo spot, che è stato realizzato con Bocelli che canta un’inedita Polvere e gloria, e utilizzando la voce di un famoso doppiatore, Adriano Giannini, da allora  ci perseguita: “L’emozione di essere italiani”, “Noi italiani siamo diversi”. Frasi apparentemente innocue, ode all’orgoglio nazionale, ma che rivelano trame retoriche tutt’altro che neutre.

La prima domanda é: “Cosa ci rende davvero italiani? Quel davvero è denso di sottintesi: non menziona le caratteristiche etniche, Paola Egonu può stare tranquilla, ma neanche essere nati in Italia e 10 anni di scuola, se ne faccia ragione il vicepresidente Tajani.

Già in passato, sotto il fascismo, la retorica della diversità e dell’eccezionalismo italiano, celebrata nella dedica del Palazzo della Civiltà, era stata uno dei fondamenti della visione autoritaria dello Stato. Gli arabi della Libia erano cittadini, ma diversi. Gli ebrei erano diversi.

In realtá il linguaggio usato per dare risposta alla domanda attinge a un vocabolario alquanto datato ventennio, mostrando che oggi quella logica risorge, e lo spot la promuove, mescolando identità, infrastrutture e consenso politico, con un pizzico di servilismo verso l’ideologia (mi si perdoni l’esagerazione) e i progetti dell’aspirante ducetto del Papeete (episodio più noto e sottovalutato perché unico, ma l’aspirazione era reale perché un mese prima, a Pescara, aveva già chiesto pieni poteri).

Lo spot, come il documento di presentazione e le dichiarazioni dei vertici dell’azienda quel 23 giugno, è un ibrido tra un pamphlet identitario e un report aziendale che illustra investimenti e piani futuri.

La stessa azienda lo riconosce: “Questo film manifesto non è solo una campagna di comunicazione. È un atto di riconoscimento, un inno all’identità collettiva, un tributo a ciò che ci unisce: la volontà di rialzarci, di andare lontano, di non dimenticare da dove veniamo e perché siamo qui”.

Commentando la presentazione dello spot, l’AD del Gruppo, Donnarumma, ha annunciato «una trasformazione infrastrutturale senza precedenti» e «100 miliardi di investimenti che genereranno valore economico». Avrà ridimensionato i programmi dopo gli impegni del Governo verso la NATO?

Il linguaggio dello spot mostra che l’elemento dominante è il pamphlet identitario: costruire un racconto nazionale dove le grandi opere – e tra tutte, il Ponte sullo Stretto di Messina – diventano simboli di appartenenza e destino collettivo, «brillante racconto dell’Italia», e del suo “popolo di ferro”, definizione dello spot che è piaciuta al responsabile comunicazione FS, Inchingolo che la ha ripresa, mentre più aziendale fu il presidente Tanzilli, che rese omaggio «al valore del lavoro quotidiano delle donne e degli uomini del Gruppo FS».

In tempi di crescente richiesta di trasparenza negli investimenti pubblici, in particolare in settori strategici come la mobilità e il turismo, è legittimo chiedersi: che ruolo pretende giocare una società pubblica come FS nella produzione ideologica del discorso nazionale? Perché mai la narrazione della “diversità” dovrebbe accompagnare un piano industriale?

L’estetica dell’eccezionalismo

Il testo non racconta treni, orari, o strategie logistiche. Si apre con una dichiarazione netta: “Noi italiani siamo diversi”. La frase, reiterata con variazioni epiche, si presenta come l’introduzione a una campagna patriottica più che come un documento industriale di una società partecipata dallo Stato. Lo stile ricorda per certi versi il nazionalismo estetico delle esposizioni universali di primo Novecento: l’Italia non è solo un Paese, è un’idea eccezionale, e FS ne è vettore simbolico e concreto.

Ma cosa implica essere “diversi”? Non certo una celebrazione della pluralità interna, delle diversità sociali e culturali del Paese. La diversità è costruita come contrapposizione: “noi” contro “loro”. Si parla di resilienza, creatività, coraggio. Valori astratti, sganciati dalla realtà concreta. In questo vuoto semantico, la “diversità italiana” si trasforma in categoria ideologica, funzionale a giustificare scelte infrastrutturali già decise a monte, la cui legittimità tecnica o ambientale è tutt’altro che assodata.

Il Ponte sullo Stretto come atto simbolico

In questa campagna il Ponte sullo Stretto non è presentato come una risposta concreta a bisogni di mobilità o logistica, ma come una sfida esistenziale, manifestazione tangibile di una “visione”, di un “sogno italiano”, una dimostrazione di ciò che “gli italiani sono capaci di fare e che gli altri non osano nemmeno immaginare”. Il ponte è definito “strategico”, “inevitabile”, quasi mitologico, ignorando la lunga serie di negative analisi costi-benefici, critiche per il suo impatto ambientale e studi ingegneristici che ne hanno messo in dubbio la fattibilità tecnica e l’efficacia economica.

Tutto questo sparisce. Il ponte non è più un progetto da valutare, ma un totem dell’identità nazionale. La propaganda mostra il suo volto più insidioso quando sposta la discussione dal piano razionale (servizi, costi, alternative) a quello emotivo e simbolico. E chi lo contesta rischia di essere etichettato come disfattista o peggio: anti-italiano.

FS: azienda pubblica o megafono governativo?

Il Gruppo FS è controllato dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, dunque dallo Stato. I vertici aziendali sono scelti politicamente, ma debbono comunque rispondere a logiche di efficienza, sostenibilità, equità territoriale. Quando la comunicazione si carica di connotazioni ideologiche, di slogan della comunicazione politica e di riferimenti identitari, viene meno il principio di neutralità tecnica che dovrebbe guidare l’azione di una società pubblica, i cui investimenti incidono significativamente sul bilancio pubblico e sorgono interrogativi di carattere generale sulla separazione tra funzione tecnica e mandato politico.

Una società di trasporti non ha nella sua missione essere strumento di legittimazione del potere. A chi serve una narrativa centrata non su gestire treni, binari, orari o piani di mobilità, ma su un racconto di un’Italia che “non si arrende”, che “guarda avanti”, che sfida la geografia”, altro ricordo subliminale dell’opera che accosterà nei manuali di architettura il ministro Salvini a Brunelleschi? Agli utenti dei treni regionali in ritardo? Alle comunità periferiche che chiedono investimenti in scuole, ospedali, manutenzione? O piuttosto serve a sostenere una strategia politica che concentra le risorse pubbliche in grandi opere di visibilità immediata e ad alta resa mediatica, anche se di dubbia utilità?

L’egemonia della retorica

Gramsci, in tempi ben più drammatici, avvertiva sull’egemonia culturale che si esercita anche attraverso il linguaggio delle istituzioni. La nuova destra é oggi bramosa di recuperare l’egemonia culturale, di costruire una nuova egemonia attraverso la cultura dell’immagine, della promessa, dell’emozione. Nella cultura, lo fa in negativo attaccando esperienze positive, ma ideologicamente ostili. Nell’esercizio del potere, parlando di una presunta “diversità italiana”. Non è solo un vezzo narrativo, significa proporre un immaginario in cui l’identità nazionale coincide con un certo tipo di sviluppo, con una precisa gerarchia di priorità e con un’idea di modernità tutta centrata sull’impatto visivo e simbolico, grandi ponti, infrastrutture imponenti, sfide alla geografia.

Le Ferrovie dello Stato sono cosí utilizzate come parte attiva in questa costruzione. Non è la prima volta. Quando c’era LUI si celebrava che i treni arrivavano in orario, meta agognata, ma, pare, irraggiungibile, dell’aspirante duce del Papeete.

Un ruolo non neutrale, ma propagandistico delle FS indebolisce la fiducia pubblica: non solo delude chi non si piega alla logica dell’emozione e della retorica, ma mostra un oggettivo disinteresse per il rigore tecnico, per la rendicontazione, per il principio di priorità riconosciuti persino da esponenti della maggioranza governativa.

La presenza del vicepremier Salvini alla presentazione della campagna e l’assenza del ministro competente suggeriscono che l’obiettivo principale, se non l’unico, non è comunicare una strategia industriale, ma costruire consenso attorno a una visione del Paese. La visione di un’Italia compatta, eroica, uniforme, dove ogni critica è sospetta e ogni opposizione è un tradimento.

Le metafore, le immagini e gli slogan dominano. Il ragionamento pubblico, la valutazione critica e l’accountability scompaiono.

L’Italia ha bisogno di infrastrutture, di collegamenti sicuri, accessibili e sostenibili. Ma ha ancor più bisogno di metodo, di scelte trasparenti, di valutazioni tecniche pubbliche e comprensibili. In giornate in cui si contano i danni di esondazioni e cambiamenti climatici, investire in resilienza territoriale e manutenzione è più urgente che mai.

Nessun Paese può permettersi di costruire ponti (reali o metaforici) sulle macerie della razionalità tecnica. Il futuro si costruisce con rigore, non con slogan. Se vogliamo essere “diversi”, allora dimostriamolo non con spot emozionali, ma con la qualità della nostra democrazia, con la centralità della conoscenza, con la coerenza tra parole e fatti. La propaganda, per quanto raffinata, non costruisce ponti sicuri né treni puntuali.

 

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