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venerdì, Marzo 29, 2024
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Francesco Labonia e l’Unione Europea

Francesco Labonia, insegnante di liceo al quale poniamo alcune domande, è uno dei principali redattori della rivista Indipendenza che, insieme all’omonima associazione, si batte da anni per la sovranità dei popoli mettendo in discussione l’Unione Europea che ha concentrato nelle mani di alcuni tecnocrati al servizio della Germania, del Fondo Monetario Internazionale e dei mercati, le decisioni in materia monetaria ed economica. Indipendenza propone l’uscita dagli onerosi trattati europei e il ritorno alle banche e alle monete nazionali nell’ambito di un progetto socialista. Contraria alle ingerenze di altri Paesi verso le politiche estere ed interne nazionali, denuncia il colonialismo occidentale che interviene politicamente o militarmente per piegare ai propri interessi le popolazioni di tutto il mondo.

L’Unione Europea e l’euro hanno determinato la crisi economica italiana o ci sono altri fattori interni come il debito pubblico, gli scarsi investimenti nella ricerca e la mancanza di meritocrazia che hanno fatto arretrare l’Italia?

Mi soffermerei sul punto principale del debito pubblico, la cui espansione è stata causata dal sostegno al sistema capitalistico italiano in crisi negli anni Settanta. Anni di forte instabilità anche politica, di stagnazione della crescita capitalistica e di forti aumenti dei prezzi, un’inflazione importata, da ricondurre principalmente agli aumenti del prezzo del petrolio. Per sostenere il capitalismo italiano, una delle risposte è stato il ricorso ad elevati disavanzi pubblici, proseguito anche negli anni Ottanta. Molte aziende si trasferirono all’estero e la spesa dello Stato si impennò a causa degli ammortizzatori sociali e dei prepensionamenti.  Al contempo si attutirono le tensioni sociali. Questo processo s’intreccia con quello dell’integrazione europea che, come un fiume carsico, attraversa la storia di questo Paese dal dopoguerra ad oggi.

Puoi spiegare meglio questo passaggio?

In sintesi potremmo dire che dall’adesione allo SME (1979) al Trattato di Maastricht (1992) si pone fine all’indebitamento a basso costo dello Stato italiano. La politica economica attuata negli anni Settanta si basava sull’utilizzo dell’inflazione e della spesa pubblica in disavanzo al fine di attutire i conflitti sociali e sostenere le grandi imprese; sulla svalutazione della lira, in particolare nei confronti delle valute europee, al fine di rendere competitive le esportazioni; sul controllo diretto del credito, sul controllo della Banca d’Italia e sulle restrizioni dei movimenti di capitale, al fine di ridurre la spesa per interessi sul debito pubblico. Di fatto il mercato finanziario italiano venne così isolato da quelli internazionali, un isolamento che non ha prodotto alcuna miseria e povertà, ma ha permesso di contenere gli effetti negativi indotti da eventi esterni.

In che modo il processo d’integrazione monetaria sconvolgerà tali equilibri?

Il 13 marzo 1979 entra in vigore il Sistema Monetario Europeo (SME), volto ad instaurare un sistema di cambi fissi tra gli Stati aderenti. Un passo preliminare verso la creazione di uno spazio europeo integrato anche dal punto di vista finanziario, basato sui principi della “concorrenza” e sulla totale liberalizzazione dei movimenti di capitale (più precisamente, dei capitali finanziari privati): obiettivi raggiunti con la sottoscrizione dell’Atto Unico Europeo nel 1986 e del Trattato di Maastricht nel 1992. Tale liberalizzazione era incompatibile con il controllo dei tassi d’interesse sul debito ottenuta tramite gli strumenti di gestione amministrativa che verranno così progressivamente smantellati.

Soffermati su questi strumenti.

Nel periodo 1970-1976, i disavanzi statali erano coperti dalla Banca d’Italia (50%), da prestiti erogati da istituti di credito (17%) e dalla Cassa Depositi e Prestiti, cioè l’Amministrazione Postale (14%) –queste ultime due voci a beneficio degli Enti locali e sanitari–, da titoli pubblici per la parte restante. Grazie ai finanziamenti della Banca Centrale e del comparto bancario ed alla predisposizione di barriere amministrative al movimento di capitali verso l’estero, la maggior parte del debito pubblico di quel periodo non era contratto nei confronti di risparmiatori sul “mercato”. Dal 1977 si inverte la tendenza. È però negli anni Ottanta che si aggrava notevolmente il costo delle emissioni e dunque l’entità del debito pubblico. La Banca d’Italia finanziava il Tesoro attraverso due strumenti. Primo: l’acquisto di titoli di Stato all’emissione (la Banca d’Italia sottoscriveva i titoli non collocati sul mercato stampando moneta). Secondo: il conto corrente di tesoreria presso la Banca d’Italia in cui i saldi debitori del Tesoro erano soggetti ad un tasso d’interesse dell’1%. Il sostegno del sistema bancario veniva assicurato tramite due forme di controllo amministrativo sul credito: il massimale sui prestiti ed il vincolo di portafoglio. Il massimale sui prestiti imponeva un limite massimo di crescita ai crediti concessi a talune categorie di clientela bancaria. Il vincolo di portafoglio, invece, obbligava gli istituti di credito ad un investimento minimo in titoli di Stato commisurato all’entità dei loro depositi. Questi meccanismi contribuivano a determinare tassi d’interesse interni più bassi di quelli vigenti all’estero.

Quali furono le conseguenze del processo verso l’integrazione monetaria?

Sin da subito dirompenti furono gli effetti sulla spesa per interessi. Nel 1981 avviene il cosiddetto “divorzio” tra la Banca d’Italia, presieduta dal Governatore Carlo Azeglio Ciampi, ed il ministro del Tesoro, Beniamino Andreatta: da quel momento Banca d’Italia non garantisce più la sottoscrizione dei titoli rimasti invenduti. Diminuirà progressivamente il finanziamento monetario delle esigenze del Tesoro, costretto ad alzare i tassi d’interesse sulle emissioni di titoli per poterli piazzare. Nel 1983 viene accantonato il massimale sugli impieghi e cadono gli ultimi vincoli di portafoglio. Nel 1984 vengono allentate le restrizioni nell’assegnazione di valuta per i viaggi all’estero. Nel 1987 si ha l’abolizione dell’obbligo del deposito vincolato infruttifero sull’acquisto di attività estere. Nel 1990 entra in vigore la direttiva CEE sulla liberalizzazione dei movimenti di capitale a breve termine. Tra le rilevanti conseguenze c’è il venir meno dell’obbligo di utilizzare il sistema bancario per i rapporti economici con l’estero. L’incanalamento di tutte le transazioni con l’estero nel sistema bancario, fino ad allora prevalentemente statale, consentiva a Tesoro e Banca d’Italia di attuare controlli coercitivi sui flussi valutari e sui cambi. Si rinuncia così a cuor leggero a strumenti decisivi per l’esercizio della sovranità monetaria e finanziaria. Nel nuovo contesto di progressiva liberalizzazione dei movimenti di capitale, i tassi d’interesse vengono agganciati a quelli vigenti sui mercati internazionali.

Cosa accadrà?

Gli aumenti dei tassi si estendono anche all’Italia, le cui autorità monetarie adottano una politica volta ad importare capitali esteri per compensare lo squilibrio nei movimenti delle merci (e dunque il minor afflusso di valuta) indotto dai cambi fissi dello SME. Tali aumenti, sommandosi al progressivo venir meno degli strumenti di gestione amministrativa del debito pubblico descritti in precedenza, producono un’impressionante lievitazione della spesa per interessi nel bilancio statale. Dunque del rapporto Debito/PIL, che passa dal 59% nel 1980 all’85% nel 1985. Non solo. Tassi così elevati, trasmettendosi anche su quelli dei finanziamenti bancari, producono effetti depressivi sugli investimenti. Di fronte a tale impennata, Tesoro e Banca d’Italia affermano la necessità di ridurre gradualmente i disavanzi primari –dunque tagliare la spesa pubblica ed aumentare la pressione fiscale. Riducendo questi, si sosteneva, si sarebbero magicamente ridotti i tassi d’interesse sul debito e dunque il suo ammontare complessivo. Una strategia di politica economica inevitabilmente destinata al fallimento.  Nonostante lo Stato –nel 1991 e negli anni successivi– spendesse, per fornire beni e servizi ai “cittadini”, meno di quanto incassasse al netto della spesa per interessi, i tassi d’interesse indotti dall’esterno sul debito non si arrestano e tantomeno il suo ammontare complessivo. Anzi, la riduzione dei disavanzi primari, riducendo la domanda interna per consumi ed investimenti, provoca un abbassamento della crescita del PIL. Si alimenta così l’avvitamento su se stesso del rapporto Debito/PIL. Un circolo vizioso irrefrenabile se non si interviene sui tassi che, moltiplicati per l’ammontare del debito in circolazione, danno luogo ad un considerevole ammontare della spesa per interessi. Tagli alla spesa, aumento della pressione fiscale ed introiti derivanti dalle privatizzazioni hanno dunque fatto il solletico ad un debito pubblico arrivato a livelli altissimi proprio per la rinuncia, imposta dalle normative europee, a controllare la spesa per interessi indotta dall’esterno. Un saggio di Modigliani, Baldassarri e Castiglionesi (Il miracolo possibile, Laterza, 1996) fornisce i dati dei capitali in gioco.

L’Italia passa così all’indebitamento estero?

Sì. La liberalizzazione dei movimenti di capitale, obiettivo fondamentale dei Trattati europei, oltre ad aver avviato la crescita esponenziale del rapporto Debito pubblico/PIL, ha aperto ampi spazi agli investitori esteri, liberi di investire e disinvestire senza restrizioni. La posizione debitoria netta verso l’estero dell’Italia, praticamente nulla all’ingresso dell’Italia nello SME, è andata progressivamente crescendo negli anni successivi. Nello specifico dei titoli di debito pubblico, se negli anni Ottanta i risparmiatori italiani, incentivati dalle alte remunerazioni, dall’anonimato e dalle esenzioni fiscali, risultavano ancora i maggiori acquirenti, la situazione si capovolge negli anni Novanta. I piccoli risparmiatori, anche in virtù del calo delle remunerazioni, sono spinti all’acquisto di rischiose obbligazioni private. Al loro posto, ecco gli istituti finanziari esteri con quel 50% di acquisti di titoli di Stato stimato dalla Banca d’Italia. A riguardo, Marcello De Cecco (L’economia italiana negli ultimi trent’anni, in Sabino Cassese, Ritratto dell’Italia, Laterza, 2001) evidenzia che il Tesoro avrebbe attuato, nell’ultimo decennio, una politica «diretta a rendere i titoli di debito italiani negoziabili sui mercati finanziari internazionali e a spostarne la proprietà, almeno in gran parte, agli investitori istituzionali stranieri».

Come si spiega questa deleteria gestione delle finanze statali?

Non c’è solo un problema del drenaggio di fondi per interessi verso l’estero. Le conseguenze sono soprattutto politiche: si consente ad istituti finanziari esteri di disporre di ulteriori strumenti di ricatto per dettare la politica economica statale. La questione dell’indebitamento verso l’estero non concerne solo gli acquisti di titoli di Stato. Al fine di rispettare i vincoli del Patto di stabilità, che restringono fortemente il ricorso all’indebitamento pubblico interno e vietano i finanziamenti monetari della Banca Centrale, lo Stato è tra l’altro spinto a tagliare i trasferimenti agli Enti Territoriali. I quali, bisognosi di fondi, si indebitano pesantemente verso banche d’affari e fondi d’investimento esteri. Lo Stato stesso ricorre al contempo ad operazioni finanziarie (esempio: le cartolarizzazioni) verso tali istituti finanziari, anch’essi generatori di un non palese ma altrettanto pericoloso indebitamento. Oltre all’indebitamento pubblico verso l’estero, aumenta quello privato: il caso Parmalat, il primo grande gruppo italiano a ricorrere ai servizi delle banche d’affari statunitensi, rappresenta un monito per le stesse parassitarie grandi famiglie. Stato e grandi imprese si avvitano insomma in una spirale debitoria. La collettività italiana non aveva e non ha coscienza del baratro davanti cui si trova, in futuro chiamata come in Argentina alla socializzazione selvaggia dei costi. Così come non si ha coscienza delle conseguenze derivanti dal processo d’unificazione europea, analoghe a quelle scaturenti dai cosiddetti programmi di aggiustamento strutturale del Fondo Monetario Internazionale (FMI) negli Stati ad esempio dell’America Latina o del Sud-Est asiatico. Programmi con cui tali Stati, costretti ad accedere ai prestiti-usurai dell’ FMI, si sono visti rimodellare gli elementi portanti del proprio sistema economico.

Vedi somiglianze tra le modalità di funzionamento della UE e del FMI?

Molte delle condizioni politico/economiche che il FMI –istituto fattivamente operante nel quadro degli interessi statunitensi– ha imposto in diverse parti del mondo con tali programmi, sono veicolate qui dal processo d’unificazione europea: l’imposizione di vincoli sul disavanzo di bilancio (comportanti anche il taglio degli investimenti pubblici, l’abolizione dei sussidi e delle sovvenzioni per le imprese statali e lo smantellamento dello Stato sociale); l’abolizione di controlli di Stato sull’economia; la liberalizzazione dei movimenti dei capitali finanziari privati; “l’indipendenza” della Banca Centrale dalle autorità politiche; le privatizzazioni dei servizi pubblici e dei settori strategici; la deregolamentazione di prezzi e tariffe; la libertà d’azione per le grandi multinazionali industriali e finanziarie estere. In due parole, lo smantellamento di pezzi decisivi di sovranità economica e finanziaria. Tali programmi, ricordiamo, hanno infine accresciuto il debito estero dei malcapitati Stati e peggiorato drasticamente le condizioni di vita delle rispettive popolazioni, che hanno tra l’altro assistito ad un rilevante aumento del costo della vita. Priva di sovranità economica e finanziaria, ed avvitata in una spirale perversa di bassa crescita del PIL ed elevati disavanzi statali, l’Italia si ritrova sempre più tra le braccia di istituti finanziari esteri i più a dominanza statunitensi. Così come per i Paesi sottoposti alle cure del FMI, il rischio sempre più concreto per il nostro Paese è di finire invischiati in un meccanismo debitorio usuraio finalizzato, in ultima istanza, ad un’ulteriore accentuazione del controllo dell’Italia da parte di oligarchie economiche statunitensi. Ad un’attenta analisi, il sistema capitalistico statunitense nel suo complesso si rivela il vero beneficiario del processo di unificazione europea.

Da qui nasce la vostra opposizione all’Unione Europea?

Sì, anche da questo. Il combinato disposto UE-euro ha determinato la spirale debitoria e incanalato la crisi economica italiana in un tunnel di cui non si vede la luce. L’arma del debito ha funto da grimaldello. Con un debito pubblico a basso costo e una gestione amministrativa del debito si è mai visto uno Stato che va in fallimento nei confronti di propri cittadini od imprese? Non dimentichiamoci che, emettendo titoli, ci si impegna semplicemente a rimborsare una determinata somma di denaro: la Banca Centrale potrebbe dunque creare, ossia stampare, il denaro occorrente. Questa creazione di moneta, ora vietata dalle normative di Maastricht, può causare inflazione, ma il rischio di bancarotta è comunque escluso. Se i titoli di uno Stato effettivamente sovrano sono sottoscritti da suoi cittadini, il debito pubblico non è né un peso economico, né rappresenta un pericolo per l’economia nazionale.

È necessario abbandonare l’Unione Europea o è possibile un’Europa diversa?

Anche per le ragioni sopra dette è necessario lo sganciamento. Quanto ai sovranismi alter-europeisti variamente declinati, a nostro avviso sono da rigettare. Chi anche avesse una –per noi illusoria– idea di Europa, comunque dovrebbe prefigurare una rottura con quella attuale. Le sue riforme interne acuiscono il dominio del duopolio di trazione franco-tedesco, sanciscono preminenze d’interesse di questi due Stati, con Paesi satelliti in scia, e subalternità di altri, Grecia e Italia in primis. Sull’Europa in sostanza due sono le opzioni: confederalismo o federalismo. Le esperienze confederali, nella Storia, pressoché sempre si sono dimostrate fallimentari, avendo sempre come esito o una centralizzazione di tipo federale o una dissoluzione della confederazione stessa. Il federalismo sovranazionale, d’altro canto, accentra il potere creando organismi elefantiaci in cui una carica o un organo decidono per un numero enorme di persone in merito a questioni cruciali. In ogni Stato federale, infatti, gli ambiti decisivi e fondamentali della sovranità appartengono sempre al governo centrale, mai alle singole parti. In un crogiuolo di lingue, culture, mentalità, interessi economici quale si configura nel continente europeo come è pensabile ridurre tutto ad un unicum politico?

Cosa proponete in alternativa?

La nostra prospettiva è quella della cooperazione tra Stati sovrani, l’unica in grado di garantire il rispetto dell’autonomia, degli interessi, della Storia, della cultura dei singoli popoli. Ci sentiamo internazionalisti. Internazionalismo vuol dire relazione, rapporto “tra” (dal latino “inter”) nazionalismi in un contesto internazionale più allargato. Nella nostra concezione ciò ha a che fare tanto con l’affermazione dell’indipendenza nazionale e della libertà della nazione da qualsiasi forma esterna di coercizione o di ingerenza, quanto con l’assoluta parità ed equità di questa rispetto a tutte le altre nazioni. Una visione antitetica, estranea e del tutto oppositiva ad ogni sciovinismo, colonialismo, imperialismo che sono sempre la negazione, il più grande nemico frontale del riconoscimento della legittimità dell’identità nazionale, che ha come sua prima caratteristica il riconoscimento dell’altro come differente e perciò eguale, che è cosa ben diversa, anzi opposta, dal considerarlo diverso e perciò diseguale. Ne consegue che, nella sua massima e più compiuta espressione, il nazionalismo coincide con l’internazionalismo; con l’unica differenza che, mentre il primo riguarda il momento di liberazione della nazione stessa rispetto a un’oppressione esterna, il secondo si realizza laddove si rivendica la necessaria estensione di tale istanza di emancipazione rispetto a entità nazionali altre. L’internazionalismo è la massima evoluzione, il punto culminante del nazionalismo.

Che idea di società avete?

Propugniamo la necessità di (ri)costruire un’autonoma disponibilità di risorse finanziarie e di indirizzo nelle linee di politica economica con attenzione preliminare al potenziamento del proprio apparato produttivo, al mercato interno e alla riqualificazione dei servizi e delle aree rese depresse (Meridione in primis). Quindi, riappropriazione da parte dello Stato delle leve di politica monetaria, fiscale, industriale, commerciale e doganale, e contestuale recupero di una piena capacità d’indirizzo del sistema bancario e dell’economia, nonché adozione di vincoli alla circolazione dei capitali in entrata e in uscita. Indispensabile dotarsi di una Banca Centrale pubblica (non autonoma, quindi), al servizio dello Stato e della collettività; reintrodurre la separazione tra banche commerciali e banche d’investimento, promuovere misure finalizzate al protezionismo finanziario e commerciale. Posso continuare? Ridefinizione di un nuovo modello, alternativo al capitalismo e di tipo socialista che ripristini la centralità del ruolo dello Stato, da concretarsi tramite il riassetto pubblico della ricerca, della sanità, dell’istruzione e della previdenza; nazionalizzazione di tutti i comparti strategici (reti energetiche e idriche, ricerca, industria, farmaceutica, comunicazioni, trasporti, viabilità, rifiuti). Proponiamo inoltre una politica sociale che protegga le persone più deboli con il ripristino e l’allargamento dei diritti senza differenze tra chiunque risieda e l’indipendenza energetica attraverso lo sganciamento dalla dipendenza dal petrolio e la valorizzazione delle fonti rinnovabili. Presupposto di tali riforme è una classe politica indipendente e una politica estera autonoma e libera piò possibile da condizionamenti.

Cosa rispondete a chi sostiene che le aziende pubbliche e la gestione dei servizi da parte dello Stato e degli enti locali sono inefficienti e costose? Il socialismo che auspicate non conduce allo statalismo?

Storicamente, in questo Paese, tutti i movimenti politici del blocco dominante hanno evocato lo spauracchio dell’IRI, il colosso pubblico liquidato a partire dagli anni ’80 con la marea montante liberista e oggetto di una vera e propria damnatio memoriae non a caso temendo la portata rivoluzionaria di un sistema di economia mista, di un intervento diretto nella vita economica e nel controllo sui gangli nevralgici del tessuto imprenditoriale del Paese. Cosa significhi lasciare al ‘privato’ la gestione di ambiti di rilevanza nazionale strategica è sotto gli occhi di tutti con la mala gestione in settori, solo per evocarne alcuni, come quello infrastrutturale, dei servizi, della sanità, che hanno concorso e concorrono al peggioramento delle condizioni materiali di vita di larghissima parte della popolazione.

Cosa pensi di Draghi?

Draghi ha il compito di riagganciare l’Italia al sistema politico-economico della UE, nel cui direttorio (Germania e Francia) da tempo si discute di una ristrutturazione di medio-lungo periodo del suo meccanismo di funzionamento. La fiaba sul “Salvatore della Patria” Mario Draghi, disceso come “Uomo della Provvidenza”, ha assunto tratti surreali. Il suo incarico, oltre alle indubbie capacità, deriva dall’essere legatissimo ai circoli atlantici, cosa che ha sempre alimentato in Germania forti diffidenze, se non aperte ostilità, quando gestiva le politiche della BCE. I tedeschi hanno imparato a conoscerlo e ad apprezzarne le doti come ‘Governatore’ della BCE. Sono costretti a tenerlo in considerazione e a farci i conti per la doppia realtà (geo/politica ed economica) che rappresenta: quella atlantica e quella imprenditoriale necessaria per la propria macchina produttiva. Oggi la posta in palio, soprattutto per la Germania, è salvare la propria industria. Per farlo deve salvare la filiera di piccole e medie imprese di sub-fornitura italiana, particolarmente del nord (Veneto, Emilia…), costruita in decenni di interconnessione con le grandi imprese tedesche in parallelo al progressivo ridimensionamento industriale italiano avviato con l’ingresso nel combinato disposto UE-euro. Per Berlino la filiera italiana non è sostituibile sia per prossimità geografica sia, soprattutto, per la grandissima qualità. Il senso dell’assegnazione all’Italia della quota più consistente del Next Generation Eu (tra prestiti –dunque nuovo debito estero e fondi perduti sotto strette condizionalità di “riforme” da varare) è tutto qui. L’orientamento economico e non sociale del Piano di resilienza è testimoniato dalla esigua porzione di fondi destinata alla sanità.

In un recente discorso Draghi ha sottolineato il suo legame con gli USA

Draghi, nel suo discorso di presentazione delle linee di governo in Senato, ha esplicitato i tre ‘assi’ del suo governo: “europeismo, atlantismo, ambiente”. Con un accento marcato sull’atlantismo. Perché marcare apertamente questa collocazione subalterna dell’Italia acclarata sin dalla nascita della NATO nel 1949? Non è solo ribadire il vincolo transatlantico è anche un messaggio per la governance europea: la ricostruzione post pandemia italiana la mettiamo nelle vostre mani, declinatela pure secondo le vostre esigenze e condizioni, ma c’è un prezzo geopolitico da pagare, e cioè una ridefinizione del funzionamento dell’Unione Europea su cui Washington vuole avere voce in capitolo. Se per Berlino e Parigi gli ‘aiuti’ sono un processo d’investimento con un ritorno pro domo propria senza che venga meno l’impianto confederale, per Washington invece rappresentano la possibilità di provocare il ridimensionamento di Germania e Francia. Per l’Italia, dopo il crollo economico del 2020 non sarà difficile mettere a segno un fisiologico miglioramento, ma da qui ad uscire dalla crisi iniziata nel 2008 ce ne passa. Il prezzo economico e sociale ulteriore per il Paese è in gran parte da venire. Ed in questo Draghi, più che il “Salvatore della Patria”, potrebbe davvero fungere da becchino della sovranità nazionale e popolare italiana.

Giuseppe Gangemi

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