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sabato, Aprile 20, 2024
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Il tempo dei ricordi

Ripercorriamo, insieme, gli avvenimenti e i personaggi più importanti che hanno segnato la data del 27 Giugno.

Accadde che:

1962 (59 anni fa): Paolo Borsellino si laurea in giurisprudenza, all’età di soli 22 anni, con una tesi su “Il fine dell’azione delittuosa, relatore il professor Giovanni Musotto, con una votazione di 110 e lode. “Il fine è elemento essenziale di ogni azione giuridicamente rilevante per il Diritto Penale”, sono le prime parole con cui il laureando Paolo Emanuele Borsellino cominciava la premessa della sua tesi nell’anno accademico 1961–1962. In quelle pagine, il giovane Borsellino analizzava il dolo, la struttura dell’azione delittuosa e le dottrine finalistiche. Pochi giorni dopo, a causa di una malattia, suo padre morì all’età di cinquantadue anni. Borsellino si impegnò, allora, con l’ordine dei farmacisti a mantenere attiva la farmacia del padre fino al raggiungimento della laurea in farmacia della sorella Rita. Durante questo periodo, la farmacia fu data in gestione per un affitto bassissimo, 120 000 lire al mese e la famiglia Borsellino fu costretta a gravi rinunce e sacrifici. A Paolo fu concesso l’esonero dal servizio militare di leva, poiché egli risultava “Unico sostentamento della famiglia”. Nel 1963, partecipò a un concorso per entrare nella magistratura italiana; classificatosi venticinquesimo sui 171 posti messi a bando, con il voto di 57, divenne il più giovane magistrato d’Italia. Incominciò, quindi, il tirocinio come uditore giudiziario e lo terminò il 14 settembre 1965 quando venne assegnato al tribunale di Enna nella sezione civile. Nel 1975 venne trasferito presso l’Ufficio istruzione del Tribunale di Palermo e a luglio entra nell’ufficio istruzione affari penali, sotto la guida del giudice istruttore Rocco Chinnici. Da qui inizierà la sua coraggiosa lotta alla mafia che si concluderà il 19 luglio 1992.

1980 (41 anni fa): avviene la strage di Ustica, un incidente aereo, avvenuto sopra il braccio di mare compreso tra le isole italiane di Ponza e Ustica. Vi fu coinvolto il volo di linea IH870, partito dall’ aeroporto di Bologna-Borgo Panigale e diretto all’aeroporto di Palermo-Punta Raisi, operato dall’aeromobile Douglas DC-9 della compagnia aerea Itavia. Quest’ultimo perse il contatto radio con l’ aeroporto di Roma-Ciampino, responsabile del controllo del traffico aereo in quel settore, si disintegrò e cadde nel mar Tirreno. Nella strage morirono tutti gli 81 occupanti dell’aeromobile, tra passeggeri ed equipaggio, tra cui 13 bambini. Varie ipotesi sono state formulate nel corso degli anni riguardo alla natura, alla dinamica e alle cause dell’incidente: una delle più battute, accettata con valenza in sede penale e risarcitoria, riguarda un coinvolgimento internazionale, in particolare francese, libico e statunitense, con il DC-9 che si sarebbe trovato sulla linea di fuoco di un combattimento aereo, venendo infine bersagliato per errore da un missile. Altre ipotesi, tuttavia meno accreditate e, alla prova dei fatti, rivelatesi inconsistenti, parlano di cedimento strutturale o di attentato terroristico. Cossiga, Presidente del Consiglio dei Ministri, all’epoca dell’incidente aereo, nel 2007 ne attribuì la responsabilità a un missile francese, destinato al velivolo libico su cui, a sua detta, si sarebbe trovato Gheddafi. Tesi analoga è alla base della conferma, da parte della Cassazione, della sentenza di condanna civile al risarcimento ai familiari delle vittime, irrogata contro i Ministeri di Trasporti e Difesa dal tribunale di Palermo. Nel 1987, il ministro del Tesoro Giuliano Amato stanziò i fondi per il recupero del relitto del DC-9, due distinte campagne di recupero, nel 1987 e nel 1991, consentirono di riportare in superficie circa il 96% del relitto. Il relitto venne ricomposto in un hangar dell’aeroporto di Pratica di Mare, dove rimase a disposizione della magistratura per le indagini fino al 5 giugno 2006, data in cui fu trasferito e sistemato, grazie al contributo dei Vigili del Fuoco di Roma, nel Museo della Memoria, approntato appositamente a Bologna.

Nato oggi:

1914 (107 anni fa): nasce a Salsomaggiore Terme (Parma) Giorgio Almirante politico. Funzionario del regime fascista durante la Repubblica Sociale Italiana, per la quale ricoprì la carica di capo di gabinetto al Ministero della cultura popolare, fu esponente di spicco della Prima Repubblica, mantenendo la carica di deputato dal 1948 alla sua morte. Divenne un convinto fascista fin da giovane, iniziando a lavorare come giornalista e fu uno dei principali redattori de “La difesa della Razza”, il periodico che iniziò le sue pubblicazioni nel 1938 e che, insieme all’approvazione delle cosiddette “Leggi razziali”, segnò la definitiva svolta antisemita e razzista del regime. Grazie alle sue credenziali di giornalista fedele al regime, venne nominato capo di Gabinetto del ministero della Propaganda. Dopo la guerra, divenne uno dei fondatori e poi segretario del MSI, il più importante partito neofascista italiano, che guidò fino alla sua morte (è il partito da cui poi nacque Alleanza Nazionale). Durante la sua lunghissima carriera politica non rinnegò mai la sua passata appartenenza al regime e la sua fede fascista. «La parola fascista ce l’ho scritta in fronte», disse in un’intervista. Fu sempre critico sulla democrazia  e, dopo il colpo di stato militare in Cile nel 1973, in un discorso alla Camera auspicò che anche in Italia potesse accadere qualcosa di simile. Era un feroce anticomunista e non nascose mai che piuttosto che una loro vittoria, alle elezioni, riteneva che sarebbe stata meglio una dittatura militare. L’unico aspetto della sua precedente carriera su cui fece marcia indietro, fu il suo sostegno al razzismo e all’antisemitismo. Almirante non arrivò mai a condannare il regime fascista per le leggi razziali e le persecuzioni degli ebrei e sostenne sempre, che le azioni che furono compiute all’epoca erano comprensibili e giustificabili alla luce del contesto storico di quei tempi. Tra gli episodi, che lo videro protagonista, il più famoso fu probabilmente la sua visita alla camera ardente del segretario del PCI Enrico Berlinguer (una visita che fu ricambiata dai dirigenti comunisti quando, nel 1988, fu la salma di Almirante a essere esposta dopo la sua morte). Nonostante questi sui atteggiamenti concilianti, Almirante e il suo partito furono spesso accusati di offrire collaborazione e copertura alla destra extraparlamentare, responsabile di violenza, uccisioni e attentanti. Secondo i suoi difensori la strategia di Almirante portò alla “Costituzionalizzazione” dell’estrema destra, evitando che milioni di voti e migliaia di militanti sostenessero partiti e movimenti ancora più estremisti. Per i critici, invece, Almirante aveva soltanto mascherato gli aspetti esteriori di un’ideologia violenta e antidemocratica che, anche grazie a lui, non è stata mai del tutto estirpata dal dibattito pubblico italiano, spesso proteggendo direttamente scelte e atti violenti dei movimenti neofascisti. Muore a Roma il 22 maggio 1988.

 

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