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lunedì, Settembre 16, 2024
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La Calabria dei campanili

A legger certi proclami che si rincorrono, oggi, fra Cosenza e Catanzaro e rimbalzano rumorosi sui media, aventi per oggetto ancora l’università e nella fattispecie la facoltà di medicina si potrebbe dire che il tempo s’è fermato. Con segno e verso magari differente, ma portata uguale

Massimo Veltri

Nella prima metà degli anni Settanta, in pratica cinquant’anni fa, fra le tante cose che accadevano e non accadevano in Calabria, brillavano le querelle e anche le manifestazioni di massa sull’università.

Brillavano nel senso che se da un lato vibranti e argomentate erano le azioni volte al ministero competente per il finanziamento dell’Università della Calabria che necessitava delle risorse necessarie per dar seguito concreto all’atto istitutivo della sua nascita, esorcizzando il sorgere dell’ennesima cattedrale del deserto, dall’altro insorgevano movimenti e richieste per nuovi e altri atenei sul territorio calabrese.

Senza bisogno alcuno di rievocare pacchetti Colombo e moti di Reggio, sembrava di rivivere tensioni e schieramenti che a periodi ricorrenti attraversano popolazioni e istituzioni calabresi.

La guerra dei campanili è un po’ una costante che caratterizza in termini emblematici identità territoriali in genere piovere e prive di coesione al loro interno, cosicché non appena si verificano le condizioni per un passo positivo in avanti in una cellula di quel territorio – dalla quale, si intende, potranno riverberarsi effetti positivi su un’area via via sempre più vasta, invece di cercare di far massa critica e muoversi per realizzare convintamente posizioni virtuose di cui possano usufruire in tanti, sempre più tanti, ecco scattare il riflesso dei poveri: Perché tu sì e io no? E quello che è mio deve restare solo mio.

La storia nostra, che poi non è tanto dissimile a quella di tante parti del mondo che agognano presente e futuro migliori e alle spalle pur dopo un passato, remoto, ricco e glorioso hanno poco e niente, è fatta di questi episodi, nei quali svolgono un ruolo non secondario, tutt’altro, padrinaggi politici di potenti o presunti tali: veri e propri genius loci che interpretano il ruolo di rappresentanti del popolo nella chiave più demagogica possibile, fatta di promesse, intrise di delega di mera rappresentanza ad agire per lisciare peli ribelli e cavalcare invidie e ribellismi, esclusioni ed esclusive, non già improntate a senso di responsabilità e guida virtuosa verso obiettivi praticabili, diffusi e di ampia ricaduta.

Cinquant’anni fa era così. A legger certi proclami che si rincorrono, oggi, fra Cosenza e Catanzaro e rimbalzano rumorosi sui media, aventi per oggetto ancora l’università e nella fattispecie la facoltà di medicina si potrebbe dire che il tempo s’è fermato. Con segno e verso magari differente, ma portata uguale.

Forse per un certo senso è vero, nel senso che la cultura e i modus operandi dei gruppi dirigenti quelli erano e quelli sono rimasti.

Per un altro e ben più stringente verso invece no: di medicina e medici, si è dimostrato nei termini e nella misura che ogni calabrese ha conosciuto benissimo lungo tre pesantissimi anni, c’è bisogno. Medici qualificati che possono formarsi in aule e laboratori attrezzati e avanzati, seguiti e indirizzati da un corpo docente come ci vuole.

Questo, ci vuole, non la competizione che a Napoli, con l’intramontabile arte della facezia, definiscono quella del gallo ‘ncoppa ‘a monnezza: la miseria si accompagna male a quarti di nobiltà ormai decaduta.

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