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venerdì, Maggio 3, 2024
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La reputazione persa dal PD

Il PD ormai è, infatti, un corpo a sé stante nel panorama politico nazionale e internazionale. Ha drammaticamente perso le elezioni del 25 settembre, ma dopo una prima fase di apparente risveglio, con le dimissioni (posticipate però) di Letta, ora sembra tutto calmo. Da un mese lo scriviamo: occorre rifondare tutto.

Solo Gianni Cuperlo tra i dirigenti dem sembra abbia capito lo stato delle cose al punto da dire che il Partito democratico ha «perduto la reputazione». La rifondazione deve essere totale – «non solo statuto, ma classi dirigenti e processi di selezione» – e la scaramanzia non gli impedisce di evocare la brutta fine della sinistra in Francia, spettro storico di tutte le sinistre: Mitterrand che si mangia il fratello a sinistra.

È pesante quel riferimento alla reputazione, perché è pensiero forse benevolo, ma diffuso, che il Pd abbia pagato salato proprio il suo essere troppo per bene, farsi carico dei problemi del Paese.

Il PD ormai è, infatti, un corpo a sé stante nel panorama politico nazionale e internazionale. Ha drammaticamente perso le elezioni del 25 settembre, ma dopo una prima fase di apparente risveglio, con le dimissioni (posticipate però) di Letta, ora sembra tutto calmo. Del congresso non c’è fretta, anche l’ultima direzione la settimana scorsa è andata a passo d’uomo, anzi di lumaca: le primarie tra 4 mesi e mezzo, intanto avviato un non meglio precisato ‘’processo costituente’’ per fare un manifesto di valori (sigh!).

Alla fine – se ci sarà un congresso – ci sarà la solita conta a due con le correnti (quel che resta) a farsi battaglia. Poveri noi!

Da un mese lo scriviamo: occorre rifondare tutto. Accettare le rotture necessarie, smantellare una dirigenza politica che si è fatta burocrazia, perché non corrisponde più allo spirito positivo e generoso dei suoi militanti, sull’orlo di una crisi di nervi dopo il carosello delle candidature garantite da esportazione nei collegi sicuri.

Solo dei burocrati astuti potevano infatti applicare così sfacciatamente una legge elettorale che non hanno voluto e saputo modificare, sveltissimi però a rifugiarsi nelle soffici coltri del proporzionale, mai nella contesa del maggioritario. Almeno, il tanto vituperato D’Alema, ai tempi del Mattarellum, aveva rischiato davvero la non rielezione in un pari o dispari in quel di Gallipoli. Altra tempra.

La riflessione di Gianni Cuperlo si congiunge, quasi in contemporanea, a quella di Michele Salvati che con una paginata sul Foglio rivendica di avere detto certe cose sulle scelte di fondo del riformismo fin dai tempi della fondazione del Pd, senza scoprirlo solo ora.

Salvati pone il problema grave dell’essere tutti fuori tempo massimo in questo dibattito, perché rimandando alcune cose sono già successe, ed è difficile rimettere il dentifricio dentro il tubetto.

Il rimbalzo non sempre coerente tra anima riformista e pulsione conservatrice, con la riserva mentale che dirsi socialdemocratici è ancora una parolaccia impronunciabile, è andato avanti per quindici anni con alterne vicende, a seconda dei risultati elettorali senza risolvere la contraddizione con un vero dialogo e scambio tra le due parti, utile alla costruzione di una sinistra moderna, europea. Il problema è che le due posizioni sono oggi separate dagli elettori stessi del 25 settembre, che hanno scelto da un lato un partito dell’ultima ora come Azione e dall’altro hanno premiato Giuseppe Conte. Riportarli tutti all’interno di uno stesso contenitore è davvero impresa ardua. Per riuscire a venir fuori da una crisi così occorrerebbe una classe politica davvero diversa, di cui non si vede traccia, se è vero che la più innovativa in circolazione sembra essere tale Elly Schlein, neppure iscritta al Pd. Bisognerebbe come prima cosa buttar via lo Statuto e l’annessa mentalità fondante.

Si naviga così a vista, in attesa di un Congresso che molti proprio non vorrebbero, un segretario dimissionario che però ha tutti i poteri e dà la linea più di quanto non facesse prima, divisioni che non capisce nessuno, correnti in grande spolvero.

Rifondazione significa poco se non c’è qualcosa di più profondo che si muove all’interno di un mondo complessivo, quello della militanza, che è il patrimonio più genuino di questo partito, che è però assai vicino alla soglia dello zoccolo duro, e forse più sotto di così non andrà. Il PD deve trovare in sé stesso le energie per risorgere. Si scelga anche l’opzione sbagliata, ma lo si faccia almeno.

È però difficile pensare a un Congresso vero, che dia vita ad una vera revisione del suo modo di essere, e soprattutto una nuova carta dei valori, decidendosi, una volta per tutte, a sciogliere lo storico nodo del riformismo. Sono più o meno cinquant’anni che Olof Palme indicò la strada (combattere la povertà, non la ricchezza), trenta da quando Tony Blair diede orgoglio ai laburisti (poi non hanno più toccato palla). Nell’elenco dei buoni consigli sarebbe anche giusto mettere il Claudio Martelli del discorso sui meriti e bisogni di Rimini.

In ogni caso oggi parlano i fatti: ha fatto prima Giorgia Meloni a formare un governo che il Partito democratico a decidere la data del congresso. Ed è un brutto segnale.

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