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mercoledì, Maggio 8, 2024
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L’eredità di Pino Puglisi a trent’anni dalla scomparsa

Ferdinando Rocca ricorda Padre Pino Puglisi, il sacerdote assassinato dalla mafia. L’uomo di chiesa, poi beato, è tutt’oggi un simbolo importante per la lotta alla criminalità.

Ricordare non è un mero esercizio della mente per conservare stabilmente la memoria, non è semplice nostalgia del passato, né un modo per sottrarci alle nostre responsabilità future. Ricordare è richiamare nel presente e nel futuro dei nostri cuori e dei nostri sentimenti un’esperienza fatta di sentimento umano, di rispetto delle regole e di senso civico verso cui dobbiamo sentirci obbligati. L’esperienza di don Pino Puglisi, appunto, un’esperienza di vita e di impegno civile destinata a proiettarsi ben oltre i limiti e le vicissitudini del proprio tempo, capace di scrutare e di scuotere le profondità degli animi e delle coscienze, operando quel «miracolo» di cui oggi tanto si parla con riferimento alle storie personali di alcuni giovani di Brancaccio, di estrazione mafiosa, che hanno rinnegato le loro origini per divenire testimoni di giustizia.

Cosa può dirci oggi l’esperienza di don Pino Puglisi che tutti noi abbiamo imparato a conoscere e a lodare per il suo operato e le sue eccezionali qualità umane? Ci dice che c’è un beato Pino Puglisi in ognuno di noi, come il fanciullino di Pascoli e la sua capacità di meravigliarsi e di stabilire un contatto emotivo con il resto degli uomini. Ci dice che Brancaccio non è solo periferia di Palermo, ma è periferia del mondo, di ogni angolo sperduto di questa Terra in cui è venuto meno il senso della solidarietà e del sentire umano.

Mi ritorna in mente una vecchia storia che riassume egregiamente il significato di questa esperienza. È la storia del colibrì raccontata da Andrea Camilleri: «Un giorno nella foresta scoppia un grandissimo incendio. Gli animali stanno lì, ad aspettare che l’incendio si smorzi, invece no. L’incendio prende sempre più vigore e allora tutti gli animali decidono di scappare via dalla foresta in fiamme. L’ultimo a fuggire è il leone che, essendo il re della foresta, ha il dovere di mettere in salvo tutti gli altri prima di salvare se stesso. Il leone comincia quindi a correre, finché scampato al pericolo incontra il colibrì, un minuscolo uccello che ha sul petto una minuscola goccia d’acqua e che vola verso l’interno della foresta: «dove vai – dice il leone al colibrì – li è tutto in fiamme, che vai a fare?». Il colibrì mostrando la goccia d’acqua sul petto risponde al leone: «vado a fare la mia parte»! Ecco, bisogna fare come il colibrì; bisogna che ognuno di noi faccia la propria parte e creda fermamente che quella goccia d’acqua sia indispensabile. Anche don Pino Puglisi ha fatto la sua parte: «se ognuno fa qualcosa – era solito ripetere – si può fare molto».

Vivere in una società civile vuol dire fare qualcosa, fare ognuno la propria parte. Vuol dire «partecipare», riappropriarsi degli spazi che qualcun altro ha occupato indebitamente, siano essi spazi materiali o immateriali come la libertà e l’appartenenza culturale, che per noi meridionali e magnogreci in particolare non è per tradizione cultura mafiosa, come in molti vorrebbero far credere. Recuperare il senso del vivere civile e non sottostare alle decisioni imposte dall’alto, dai poteri occulti o dalla politica che non ha mai amato la nostra Terra più di coloro che, loro malgrado, sono costretti ancora oggi ad emigrare e sono soprattutto giovani. Questo è l’insegnamento e il dono prezioso che Pino Puglisi ci ha lasciato in eredità: amare la nostra Terra, avere a cuore, prendersi cura dell’altro con coraggio e dignità. «I Care», don Puglisi come don Milani: da Barbiana a Brancaccio un buon motivo per sentirci italiani.

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