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venerdì, Dicembre 13, 2024
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Lo Presti: ipocrisie moderne, Leopardi e cazzi!

Il giornalista Lo Presti ci porta per mano tra le cosiddette parolacce nella letteratura, mettendone a nudo origine, senso artistico, uso e smascherando l’ipocrisia della nostra società.

Matteo Lo Presti

“Son guarito e sano come un pesce in grazia dell’avere fatto a modo mio, cioè non avere usato un CAZZO di medicamenti”. “Ieri fui da Cancellieri il quale è un COGLIONE, un fiume di ciarle”. Non ho con cui ragionando accaloratamente possa buttar giù i CAZZI “. Non sbalordisca il lettore: le brutte parole evidenziate non sono del vecchio Vittorio Sgarbi crocifisso da viceministro per abuso di parole che sembrano nuove alle orecchie dei perbenisti scrutatori della TV.

Ma Bossi e Salvini?

E il movimento 5Stelle che è cresciuto di voti sui “Vaffa Day” di cosa accusa Sgarbi?

Ipocriti e basta.

Le brutte parole, cifra di pensieri suggestivi, sono del giovanissimo poeta Giacomo Leopardi che scrive al fratello Carlo nel 1823. Le interdizioni erano spesso abusate e applicate per decenza nella società urbana borghese e non in quella contadina e operaia. Questo una volta, molti decenni fa. Al dì di oggi la “brutta parola” non si nasconde più nella parlata magico religiosa, in quella politico-burocratica, in quella sociale e sessuale. Senza andare a disturbare il poeta Pietro Aretino, nato nel 1492 (anno della scoperta dell’America), che ebbe a scrivere in sonetti famosi “Questo CAZZO voglio, non un tesor, tutto per fotter i mali”, “e se tu il CAZZO adori io la potta amo”, “fino al core infilzami il cazzo”. Perché trascurare il grande Gustave Flaubert che nel suo capolavoro “Dizionario delle idee correnti “smascheramento della ipocrisia del linguaggio, ebbe a scrivere “Erezione: parlarne solo di monumenti”.

E che dire di Alberto Moravia che nel suo romanzo “Io e lui” edizioni Bompiani del 1971? Un dialogo tra il suo sesso prepotente e il suo rimorso culturale, la nevrosi, interpretata in chiave tragicomica, non lontano dall’assurdo.

Ma toccò al geniale Cesare Zavattini obbligare ad una riflessione linguistica quando, in una trasmissione radiofonica, sibilò con il suo accento padano alto e forte “Cazzo” era il 25 ottobre 1972 “Voi ed io: punto a capo”. Regista Beppe Grillo.

Orrore, allora, scandalo! Aveva osato il collaboratore di De Sica chiamare “la cosa” con il suo nome e non con le metafore di vocabolario interdetto. Nel libro “Le brutte parole” di Nalora Galli de’ Paratesi, oscar Mondadori si legge che “Pinco Pallino” altro non significa che “pene- testicolo” da un significato non traslato “cetriolo”.

In familiarità con sostituti “capperi, corbezzoli, cavolo, fregnone, cacchio”. Parola discussa: da cosa deriva?” La mestola, la “ciassa” (Lombardia e Friuli) con la quale si gira la minestra “la cazza”?  Oppure dal greco “akaiton” albero maestro della nave? E minchia in dialetto siciliano? Certamente da mingere = fare pipì. Da rimarcare che in siciliano l’organo maschile è declinato al femminile. Mentre l’organo sessuale femminile “u sticchiu” dal greco “taglio” è maschile. Il BELIN dei genovesi deriva dal dio Belo protettore della fecondità o anche piccolo budello. Tornando a Sgarbi sarebbe piaciuta la riflessione di Carmelo Bene “Osceno è tutto ciò che si trova fuori dal copione”.

Sgarbi non è nuovo a eccessi. Ma questa sua spettacolarità non è lontana dal suo famoso “capra” o all’insulto alla voce del giornalista Mario Giordano “Taci rana”.

Più grave il comportamento di Vittorio Sgarbi ad una cena a Spilimbergo (Pordenone) per rendere omaggio all’unica scuola di mosaicisti di Europa. A cena con sindaco e assessori, Vittorio Sgarbi era seduto tra due giovani ragazze: una gli detergeva il sudore, l’altra stava accoccolata sulla sua gamba destra. Alla seconda portata il parlottio nella cena si spense: Sgarbi si era addormentato. Non c’era nessuna ripresa televisiva. Nessuno ebbe coraggio di svegliare il Maestro.

D’altra parte, ad una delle prime manifestazioni femministe a Milano un corteo di ragazze di tutte le età, urlava slogan epocale “L’utero è mio e lo gestisco io”.

Il corteo passava davanti ad una fabbrica con gli operai irrequieti e ridenti: uno tra loro emise un grido competitivo con il sessismo femminile “l’usel l’è il me e tel fò nanca vedè” (l’uccello è il mio e non te lo faccio neanche vedere). Aristofane 400 anni prima di Cristo inventore del termine sessuale femminile “fica” si sarebbe illuminato di una lunga risata. E Sgarbi sa bene fare spettacolo. Viene considerato osceno un comportamento quando esso non è congruo alle norme sociali che prescrivono il cerimoniale della buona condotta. Un gesto che offende il senso ritualistico dominante riceve il marchio di infamia dell’oscenità. Osceno è in conclusione un giudizio di biasimo che colpisce un comportamento refrattario ad un codice accreditato di decoro e convenienza. Mazzini passeggiava in un parco nel 1830 per guardare “le caviglie delle ragazze”. Un uomo moderno rimane freddo sulle spiagge davanti a migliaia di cosce (per tacer di altro!) femminili.

Ma chiediamoci perché trascurare le oscenità politiche che ci vengono ammannite tutti i giorni dai talk show, nel corso dei quali l’osceno politico, come insulto alla intelligenza degli ascoltatori, è praticato ad apertura di bocca? Sgarbi abusa della nostra pazienza, ma se fa audience pare difficile che scompaia da programmi televisivi. “Naturalia non sunt immoralia” e solo i cattivi pensieri lubrichi sono un pericolo. Ma il direttore del museo MAXXI Alessandro Giuli deve aspettare le proteste dei dipendenti per prendere posizione? Sappiamo come vanno gli equilibri in questa stagione: Sgarbi e Giuli e il ministro San Giuliano sono tutti “de no antri”.

 

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