Poesia di Felice Foresta che omaggia il defunto cantautore calabrese Otello Profazio.
Felice Foresta
Qua si campa d’aria.
Anche quando si muore.
Perché la morte è una storia a sé. E perché la morte restituisce, inesorabilmente, vita.
A ciò che è stato, che è infranto e che è perso.
La morte di Otello Profazio, per tutti quelli della mia generazione, è stato un colpo secco.
Una botta acuminata e arroventata che rimbalza tra le spighe della nostra innocenza.
Segna la fine di un’epoca che, pur nella sua immarcescibile imperfezione, ha significato tanto.
Tutto aveva un’anima, nel tempo che è stato il tempo del maestro.
Un’anima randagia.
A volte ferita, e a volte guerriera.
A volte contadina, e a volte proletaria.
A volte dipinta, e a volte schizzata.
Un po’ come un’Ape Car.
Il pensiero buffo per noi bambini di quei giorni merlati d’orzo bimbo, fiesta e oro Saiwa.
Il sogno proibito di mezzadri e coloni. Capaci di farli sentire re tra gli obelischi di grano e restucce di Cutro, o tra le brume padane inghiottite di nebbia e petrolio.
Otello Profazio, forse, non lo saprà mai. Lui, che è sempre stato un passo avanti anche quando qualcuno gli sorrideva davanti ma gli storceva il muso appena passava l’angolo, non se ne renderà conto.
Lui era bravissimo nelle materie letterarie, mi racconta mia zia che gli fu compagno di liceo.
E così non sorprende che i suoi testi avessero significati altri e alti. Molto più pregnanti di quelli che gli sprovveduti annettevano con supponenza a un cantante folk.
Il suo ultimo assolo di musica e parole è stato come un braciere olimpico.
Dove brucia la storia di eroi per farsi ricordo e lorica. Cardata da lacrime dolci, unguenti e speranze.
Un paio di mesi fa, scrissi che Otello Profazio, per me, era un mito.
I miti, si sa, fanno un dispetto alla nostra vicenda terrena.
I miti non muoiono.
Loro campano d’aria.