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martedì, Maggio 14, 2024
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Quando Sharo Gambino intervistò Cavallaro

Bruno Gemelli ci parla dell’intervista a Pasquale Cavallaro e della storia narrata dal saggio “La Repubblica rossa di Caulonia”.

Bruno Gemelli

La figura di Pasquale Cavallaro è sempre all’attenzione degli studiosi di storia. Il personaggio fu chiamato, di volta in volta, ribelle, romantico, barricadiero, rivoluzionario, utopista, idealista, eroe, comunista, avventuriero, persino ‘ndranghetista. Ma anche Don Chisciotte, Robin Hood, Robinson, ecc ecc.

Il saggio “La Repubblica rossa di Caulonia: una rivoluzione tradita?” (Casa del libro, Reggio Calabria 1977), di Crupi, Gambino, Misèfari e Musolino contiene l’unica intervista pubblica concessa da Cavallaro. Nel maggio del 1968 la rilasciò al giornalista e scrittore Sharo Gambino, il quale fissò la lunga conversazione su cinque nastri di un registratore Geloso che gli aveva prestato un amico.

Un colloquio inoppugnabile. Una conversazione pregnante, una sorta di biografia orale, un documento unico, organico, trasmesso dal rivoluzionario a un comunicatore. I due si parlarono con il voi, la modalità calabrese per eccellenza.  Gambino pubblicò lo scoop in cinque puntate sul periodico “Calabria oggi” diretto da Pasquino Crupi. «Ricordo l’emozione che mi prese quando – annotò Gambino -, nel 1962, ricevetti la prima lettera di Pasquale Cavallaro, il quale, nel ringraziarmi di una recensione ad un suo libro di poesie dialettali (“Lu comizio di li lupi”), mi manifestava stima e simpatia. Emozione perché   Cavallaro, divenuto un personaggio storico, io me lo portavo dentro fin da bambino, da quando, vale a dire, ne avevo inteso parlare (lo scrissi in “Fischia il sasso”) da un maestro di scuola su compaesano, il quale, conversando con mio padre, menava vanto di avergli dato uno schiaffo.

Così, ai tempi della “Repubblica”, Pasquale Cavallaro era già per me familiare, anche se, questa volta, mi faceva paura perché era comunista e perché voleva portare il comunismo in Calabria e poi in tutto il Meridione. Avevo quasi vent’anni, tutti vissuti sotto il fascismo ed ero imbottito di propaganda anticomunista. Perciò respirai sollevato, allorché dalla radio appresi che i moti di Caulonia erano stai soffocati grazie all’intervento dei carabinieri armati e che Cavallaro era stato arrestato. Passarono degli anni. Una quindicina. Nel frattempo io avevo tradito la pittura, con la quale avevo amoreggiato fin dall’età di sei anni, per innamorami della carta stampata. Scrivevo e scrivevo a fiumara, interessandomi di tutto, anche di critica letteraria; ed il mio nome era assai frequente sulle pagine dei cinque o sei quotidiani ai quali collaboravo. Frattanto avevo anche riveduto, sia pure con grande travaglio, le mie idee politiche e mi ero trovato uomo di sinistra. Cavallaro e tutti i comunisti e tutti i socialisti non mi facevano più paura, ma li sentivo fratelli nella speranza di un uomo migliore, dove non ci sarebbero stati più sfruttati e non ci sarebbe stata più gente abbandonata come quella di Cassari, dove ero andato a insegnare e a dirigere un centro di cultura popolare e in mezzo alla quale avevo maturato la mia crisi politica. Perciò scrissi la recensione che aveva entusiasmato Cavallaro; il quale, da quella volta, mi divenne grande amico. Quell’amicizia fu suggellata da una visita che io feci a Cavallaro in un nebbioso pomeriggio del marzo 1964, ventesimo anniversario dei moti di cui egli era stato il protagonista maggiore e il grande ispiratore. Ci intrattenemmo per un’oretta, in quella sua stanza disadorna, povera, ricca solo di libri. E quando tornai via, avevo il rimpianto di aver perduto l’occasione di un lungo discorso sulla “Repubblica”.  Un discorso che avrei senz’altro fatto se avessi avuto un registratore.

Si sarebbe rinnovata la possibilità di un nuovo incontro con Cavallaro? Rimuginavo questo mio cruccio mentre, a piedi, arrancavo verso Caulonia Marina, dove, più tardi, sarebbe venuto l’amico con cui, sulla sua auto, sarei rientrato a casa. A quei tempi non era facile arrivare a Caulonia, poiché non avevo l’auto e per muovermi approfittavo di fortunate circostanze, che erano davvero rare. Ma quando, finalmente, risparmiando, misi le mani sul volante di una “500” mia… allora non ci fu strada della Calabria che non mi vedesse passare veloce e avido di conoscenze calabresi. E tornai a Caulonia. Era una stupenda giornata di fine maggio 1968 e con me c’era l’amico prof. Peppe Loiacono col suo nuovo registratore e cinque o sei nastri magnetici che a sera ci saremmo riportati indietro trasformati in un documento storico. Cavallaro parlò per ore e ore, calmo, senza bisogno di appunti (aveva la lingua sciolta e pensiero lucido così come il ricordo), a braccio, come si dice in gergo giornalistico. Si interrompeva, però, di tanto in tanto per riposarsi (ormai sfiorava i 75 anni) e riprendere fiato». Così Gambino. Mentre Cavallaro disse di sé: «La gente mi ha giudicato in modi diversi; i nemici ideologici non potendo addossarmi atti peccaminosi, colpe delittuose ne hanno inventate di tutti i colori ed io ho sempre lasciato correre, ho risposto con la condotta diametralmente opposta a quella che essi avrebbero voluto far risultare. Taluni mi indicavano come un delinquente, anzi un capo di malavita perché così avviene quando contro un individuo preso di mira non si hanno fatti reali da imputargli». Infatti, la parte più controversa dei tanti appellativi riservatigli da nemici e studiosi è stata sempre la sua presunta appartenenza alla malavita.

In un altro passo della conversazione con lo scrittore di Serra San Bruno il rivoluzionario cauloniese affermò: «A Caulonia io conoscevo per esperienza i dolori della povera gente, le umiliazioni e le forme con cui la povera gente ha reagito. Io pensavo e concludevo che questa forma delittuosa, l’onorata società, seppure non sempre delittuosa, era la maniera con cui la gente reagiva. Di questo io mi ero reso conto fin dalla prima giovinezza e dato che persecuzione non mi lasciava mai respiro, mi son trovato ad aver contatti con questi gruppi. Non ho disdegnato, tutt’altro; ad approfondire questi contatti, la esperienza di questi contatti».

Pasquale Cavallaro si sposò con Maria Mammone ed ebbe sette figli: Libero, Ercole, Vera, Leone, Nicola, Ines e Alessandro. Lo stesso figlio Alessandro nel suo libro scrisse: «Gli si addebitavano anche rapporti con la ‘ndrangheta e certo ne ebbe, per la natura della sua vita avventurosa che lo portò, quasi per forza di cose, a intrecciare legami anche con gente che operava al di fuori della legge, quando l’unica legge era quella dei padroni: non fu né un mafioso né uno ‘ndranghetista».

Gli ultimi anni della sua vita Pasquale Cavallaro li passò all’ospedale geriatrico di Gerace che era ubicato in un convento del 1347 dedicato a Sant’Anna. Oggi quel presidio ospedaliero non c’è più, i resti del monastero sì. Negli anni ’90 l’allora Usl di Locri costruì un edificio, giù nel borgo, che però non è mai entrato in funzione. Una delle tante cattedrali nel deserto. Le ultime confidenze del rivoluzionario furono raccolte dal primario geriatra, Salvatore Gemelli (solo omonimia con il sottoscritto), letterato e umanista. Era 1972. E il medico di Anoia tratteggiò la personalità di alcuni suoi pazienti nel saggio “Così muoiono i vecchi” (Effemme, 1977). Un passo del libro recita: «Fino all’ultimo dei suoi giorni, nei suoi ripetuti ricoveri, il professor Cavallaro, mi parlò di paure, di appostamenti, di vendette. Sul suo viso, nel suo corpo, allora, la malattia appariva come un fatto secondario, un epifenomeno di più atroce lotta interiore. Cercai “i Canti” di Pasquale Cavallaro, pubblicati nel 1920; la loro lettura completò l’inquadramento della figura di quest’uomo straordinario, e conferì un carattere d’ancestralità e una coloritura profetica al suo dolore». Il primario colse nel segno.

Il 1973, all’età di 82 anni, Cavallaro si spense portandosi dietro qualche segreto che neppure il confessore-geriatra volle svelare giacché anche lui da lì a poco avrebbe trovato prematuramente la morte a causa di un male incurabile.

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