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giovedì, Marzo 28, 2024
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“Regioni. 50 anni di fallimenti”: il caso disperato della Calabria

Filippo Veltri e Franco Ambrogio nel libro “Regioni. 50 anni di fallimenti”, partendo dal caso disperato della Calabria, ultima regione italiana per servizi ai propri cittadini, ma prima per potenza della sua mafia, si interrogano sul perché sia successo che istituzioni nate per dare una più fluida articolazione allo Stato si siano trasformate nel più macroscopico esempio della sua disarticolazione.

Molto stimolanti le considerazioni di Filippo Veltri e Franco Ambrogio nel libro “Regioni. 50 anni di fallimenti” (edito da Rubbettino) che partendo dal caso disperato della Calabria, ultima regione italiana per servizi ai propri cittadini, ma prima per potenza della sua mafia, si interrogano sul perché sia successo che istituzioni nate per dare una più fluida articolazione allo Stato si siano trasformate nel più macroscopico esempio della sua disarticolazione. Le regioni, immaginate come soluzione di storici problemi della nazione, rappresentano oggi la più forte incrinatura del sentimento nazionale; sbandierate come una possibile soluzione di secolari squilibri territoriali, hanno invece prodotto una potente accelerazione del divario tra Centro-Nord e Sud; profetizzate come antidoto al notabilato e al centralismo statuale, al contrario hanno dato vita a un nuovo notabilato e a un’originale forma di “centralismo territorializzato”. Una così radicale eterogenesi dei fini non è riscontrabile in nessun’altra riforma strutturale che ha interessato la vita istituzionale del nostro paese dal secondo dopoguerra in poi.

E, nonostante i palesi fallimenti in materia sanitaria che la pandemia ha manifestato, impedendo nei fatti una risposta più efficace al Covid e non solo nelle regioni meridionali, si pensa come se niente fosse successo di riprendere l’iter della cosiddetta “Autonomia differenziata”, cioè l’assegnazione di ulteriori competenze (sanità, istruzione, turismo, ecc.) alle regioni che lo hanno richiesto o lo richiederanno. Nel suo recentissimo libro (Ragioniamoci sopra. Dalla pandemia all’autonomia) ne scrive con enfasi Luca Zaia, presidente del Veneto, come se le istituzioni regionali fossero uscite trionfanti di questa fase storica dominata dal Covid!

Ma l’Italia non è affatto uno Stato federale, eppure durante tutta la gestione della pandemia ci si è comportati come se lo fosse, affidando alle regioni funzioni mai assegnate nel passato. E se in nessuno Stato federale la sanità è stata devoluta alla competenza locale, perché mai lo si è fatto da noi dove è in vigore solo un regionalismo “rafforzato”? Venti differenti sistemi sanitari (quanti sono le regioni) non migliorano affatto il godimento del diritto costituzionale alla cura al di là del reddito e del luogo dove si risiede. Anzi.

Chiedersi come si è arrivati a questa assurda situazione, vuol dire anche fare un rapido tuffo nella mostra storia. La scelta federalista fu scartata nel 1861: l’accentramento era suggerito dalle profonde differenze economiche e sociali esistenti tra i 7 stati preunitari che avrebbero nuociuto, se non governate dal centro, alla nascita di una nazione forte, unita e autorevole anche nel confronto internazionale.

Il problema di un diverso assetto istituzionale si pose poi durante la discussione sulle caratteristiche dello Stato repubblicano. Come antidoto al centralismo autoritario del periodo fascista, fu prevista in Costituzione la nascita delle regioni. Ma la riforma regionalista si realizzò solo nel 1970, ben 22 anni dopo. E nel corso degli anni cambiarono nettamente le posizioni dei principali partiti sulla questione. Il Pci e il Psi erano sostanzialmente antiregionalisti, mentre la Dc, il partito d’azione e una parte del partito repubblicano erano filo-regionalisti. Poi le forze di sinistra intravidero la possibilità di governare in Emilia-Romagna e Toscana, mentre la Dc temeva proprio questa eventualità. Si arrivò alla nascita effettiva delle regioni sia per la spinta dei socialisti al governo sia per una valutazione che si faceva strada tra le menti più illuminate del cattolicesimo democratico, cioè attutire i caratteri antisistema del Pci coinvolgendolo nella gestione dei governi locali.

La seconda svolta si ebbe nel 2001. Il centrosinistra cercò di sopperire alle sue difficoltà di radicamento nel Nord, dopo la crisi di identità dell’universo operaio, avviando una gara con la Lega di Bossi a chi era più federalista: un errore storico e politico clamoroso. Si realizzò così una riforma della Costituzione affrettata e confusa. E addirittura si previde che ciascuna regione potesse fare richiesta di ulteriori competenze anche se le altre non le avessero richieste! Insomma, si autorizzò nei fatti la creazione di ulteriori regioni “speciali”, come le 5 già esistenti. E poiché a chiedere di avviare un regionalismo differenziato sono state il Veneto, la Lombardia e l’Emilia-Romagna, si può definire questa richiesta come l’autonomia delle regioni più sviluppate e più ricche d’Italia, che ritengono di avere più diritti e più competenze di quelle meno sviluppate. In questo modo il regionalismo asimmetrico diventerà una ratifica definitiva degli squilibri territoriali e un cittadino italiano che vive nel Sud sarà membro di una nazione minore.

Isaia Sales

 

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