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Ricordo di Peppe Valarioti, a 42 anni dal suo assassinio

Giuseppe Lavorato, esponente del PCI, ricorda l’anniversario dell’assassinio di Peppe Valarioti, avvenuto l’11 giugno 1980 per mano della ‘ndrangheta. Valarioti è stato dirigente del Partito Comunista Italiano sempre accanto agli operai, braccianti agricoli e studenti per tutelare i diritti, il lavoro, lo sviluppo sociale, culturale, ed economico della Piana di Gioia Tauro e della Calabria e per contrastare lo strapotere ndranghetista, che opprimeva le speranze di cambiamento della Regione.

 Sono trascorsi quarantadue anni ed il ricordo di Peppe Valarioti, del suo impegno e del suo assassinio, ritorna sempre vivo e congiunto a quella intensa stagione di lotta sociale e politica che sbocciò nella Piana di Gioia Tauro-Rosarno nella seconda metà degli anni ’70 del secolo scorso. Quando le popolazioni di quel territorio insorsero per impedire che le opere (il porto e l’impianto industriale), programmate per promuovere sviluppo economico per il Mezzogiorno e lavoro produttivo per 7500 giovani e disoccupati calabresi, divenissero soltanto un grande affare per la ‘ndrangheta ed i suoi complici nascosti in settori importanti della politica, delle istituzioni ed in cricche affaristiche. In quel duro scontro sociale e politico Peppe Valarioti portò l’intelligenza e la passione dei suoi giovani anni. E mano mafiosa lo uccise.

Un’inchiesta giudiziaria miope, cosparsa di lacune e di errori (rilevati anche nelle sentenze istruttoria e processuale), strappò il suo assassinio dal contesto in cui avvenne, lo derubricò in questione di altra natura e si concluse nel completo fallimento, senza l’individuazione e la condanna dei colpevoli.

Eppure erano evidenti (e noi li evidenziammo) i fatti concreti e specifici sui quali indagare per fare piena luce sul delitto e colpire le grandi famiglie mafiose che lo ordinarono, lo eseguirono e, per nascondere movente e mandanti, uccisero anche l’esecutore.

C’era, chiarissimo e visibilissimo, l’oggetto dello scontro politico-sociale, costituito dall’ingente flusso di miliardi destinati alla costruzione del porto, dell’area industriale di Gioia Tauro, delle infrastrutture e degli impianti industriali finalizzati alla crescita civile e sociale della Calabria. E c’erano, altrettanto chiari e visibili, i numerosi episodi di quello scontro, alcuni dei quali culminanti in aperta e clamorosa sfida di massa alla paura ed al potere che la ‘ndrangheta esercitava sulle popolazioni : -i comizi di denuncia della rapina mafiosa nelle piazze centrali e nei  quartieri popolari dove si affacciano anche i palazzi dei grandi boss; – i cortei con migliaia di persone che  gridavano disprezzo  ai nomi dei mafiosi più potenti e allontanavano dalle manifestazioni unitarie i politici collusi o protagonisti di malversazioni, come avvenne a Gioia Tauro e Taurianova; – gli episodi del  duro scontro tra il PCI e la ‘ndrangheta nella competizione elettorale di Rosarno, compresi gli attentati compiuti pochi giorni prima dell’agguato omicida : il fuoco mafioso appiccato dentro la sezione del PCI ed alla macchina del candidato comunista alla provincia; la ferma risposta antimafia dei comunisti con la manifestazione nella piazza centrale del paese; la denuncia  e le parole di Peppe Valarioti : ‘se pensate di intimidirci, vi sbagliate, i comunisti non si piegheranno mai’. E poi anche il successo dei comunisti e la sconfitta della ‘ndrangheta nel risultato elettorale di Rosarno.

Tutti videro, sentirono e capirono, perché quello scontro avvenne nell’arena pubblica delle piazze e delle strade di Rosarno e della Piana. E il funerale divenne commossa e possente  manifestazione antimafia. Soltanto chi si sprangò gli occhi, le orecchie ed il cervello non vide, non sentì, non capì.  E continuò a non capire nemmeno quando, alcuni anni dopo, Pino Scriva, il pentito di ‘ndrangheta più importante, le cui confessioni costarono ai mafiosi decine di ergastoli, raccontando la confidenza fattagli da Giuseppe Pesce, indicò in Giuseppe Piromalli colui che indusse lo stesso Pesce a ordire l’assassinio.

Giuseppe Piromalli, proprio colui che in quegli anni era universalmente ritenuto il capo assoluto ed indiscusso dello  ‘stato maggiore della mafia e di  quel consorzio delle cosche che  programmò l’assalto alle opere pubbliche ed alla spartizione dei profitti’.

Il procuratore Nicola Gratteri disse: ‘’I clan mafiosi rifiutarono l’offerta della percentuale del 3%, perché ritenuta esigua ed imposero trasporto sabbia, inerti, ed altre condizioni.‘’  ‘’Nel periodo compreso tra il 79 e l’83, circa 23 miliardi di lire finirono nelle mani dei clan più potenti della Piana di Gioia Tauro :  14,5 ai Piromalli, 3,2 ai Mancuso di Limbadi ; 2,2 ai Pesce;  0,56 ai Bellocco ; O,53 ai Crea ; 0,26 ai Mammoliti ; 0,17agli Avignone’.  E nel loro potere passò anche l’assunzione di grande parte del personale e degli operai addetti alla costruzione della grande infrastruttura’’ .

Gianfranco Manfredi su l’Unità del 2 novembre 1980 scrisse che Giuseppe Pesce nel ‘’73 partecipò alla riunione segreta tra i capi mafia calabresi ed i rappresentanti delle ditte appaltatrici dei lavori per il quinto centro siderurgico di Gioia Tauro per definire tutta la partita degli appalti e dei subappalti’’.

Erano quelli i ricchissimi introiti che i boss mafiosi sentivano in pericolo per le denunce dei testimoni comunisti nel processo di Reggio Calabria e per le manifestazioni di lotta nella Piana che chiedevano, con la voce di migliaia di manifestanti, che i giudici approfondissero e completassero quanto era già incominciato ad emergere, sul conto dei boss e dei loro complici.

Ma l’inchiesta giudiziaria di Palmi sull’assassinio del segretario politico di una delle sezioni comuniste che guidarono quella battaglia, inspiegabilmente, tenne fuori dall’indagine quello scontro, quegli interessi, quel groviglio politico affaristico mafioso, e diresse altrove la sua attenzione. E giunse anche a ribaltare il significato dell’intervento di Peppe Valarioti nel comizio di apertura della campagna  elettorale del 1980, trascrivendo le sue parole come attacco alla cooperativa Rinascita mentre erano, invece ,l’esatto contrario : adesione, consenso e sostegno alla battaglia di quella struttura contadina e pesante accusa politica all’amministrazione comunale PSI-DC che aveva disatteso l’impegno di assegnare i terreni del fondo Zimbario alla cooperativa 1 maggio, secondo il progetto elaborato dal movimento cooperativo nazionale e presentato al comune di Rosarno  dalla stessa cooperativa Rinascita con la finalità di costruire lavoro produttivo per i giovani e i disoccupati e farlo divenire anche programma pilota per le necessarie riconversioni di una agricoltura arretrata ed in difficoltà nel mercato internazionale che, allargandosi  sempre di più, imponeva innovazione colturale e produzioni pregiate.

Il giudice istruttore e la Corte d’Assise di Palmi riconobbero quel clamoroso rovesciamento della verità e, con un eufemismo, lo definirono soltanto un ‘equivoco’.

L’assassinio di Peppe Valarioti fu l’avvenimento più doloroso di una delle più generose battaglie sociali e politiche combattute nel Mezzogiorno d’Italia contro le organizzazioni mafiose che dal sud dell’Italia, in combutta con politici, massoni, imprenditori affaristi ed uomini infedeli delle istituzioni, iniziarono in quegli anni a scalare  il resto del territorio nazionale, secondo la linea della palma di cui parlò e scrisse Leonardo Sciascia.

L’inchiesta giudiziaria di Palmi ebbe tra le mani un filone di indagine che portava dritto al cuore di quel processo di crescita criminale e della nascente nuova ‘mafia che i comunisti avevano individuato ed  incominciato a denunciare nei paesi della Piana già nel ’74, in combattive   e partecipate assemblee pubbliche che ponevano al centro del dibattito e della iniziativa politica  ‘’ la necessità e l’urgenza di fronteggiare  un fenomeno delinquenziale e mafioso che non accetta più di raccogliere soltanto  briciole di ricchezza e di potere , ma interviene con prepotenza nei grandi processi economici per dirigerli ed utilizzarli ai propri finì.

La clamorosa conferma di quell’analisi giunse l’anno successivo, il 25 aprile del ’75, giorno dell’inaugurazione dei lavori di costruzione del porto di Gioia Tauro. Al cospetto del ministro Giulio Andreotti e sotto gli occhi delle più alte autorità istituzionali calabresi, sull’intera cerimonia di posa della prima pietra aleggiò la presenza ostentata ed ingombrante dei Piromalli, la famiglia di ‘ndrangheta più potente della Calabria.  Quel giorno, mentre l’Italia festeggiava l’Anniversario della Liberazione del Paese dal nazifascismo, in Calabria la ‘ndrangheta festeggiava il suo ingresso ufficiale tra i poteri che contano.

A quanti vollero continuare a difendere gli interessi popolari, le speranze della povera gente e la legalità, restò soltanto la denuncia pubblica, la promozione e l’organizzazione della rivolta sociale dei derubati. Ed iniziò una lotta che comprese un sempre più vasto schieramento di forze sociali e politiche. E giunse anche nell’aula di giustizia del tribunale di Reggio Calabria, con le parole dei testimoni comunisti ( Mommo Tripodi, Mario Tornatora, Francesco Martorelli, Ninì Sprizzi, Edoardo Macino ) che ,  nel famoso processo ‘’contro i 60 boss di ‘ndrangheta più potenti’’, ribaltando larghi silenzi ed omertà, rivelarono episodi gravi di violenza e  rapina  mafiosa sulle risorse pubbliche e sui calabresi. E per la prima volta nella storia della Calabria e del Paese quei boss furono condannati e rinchiusi nelle patrie galere.

L’assassinio di Peppe Valarioti fu la risposta (la vendetta) alle lotte ed alle testimonianze che resero possibili quelle condanne; e fu il monito che la ‘ndrangheta sentì l’urgenza di lanciare per intimorire  il PCI,  terrorizzare e disperdere quel movimento di lotta. Risposta e monito che toccò alla ‘ndrangheta della Piana eseguire, perché nella Piana era sorto ed era in piedi il movimento di lotta, e dallo stesso territorio provenivano quattro dei cinque comunisti che testimoniarono nel processo di Reggio Calabria.

  ‘’Non è poi vero che il Sud abbia sempre accettato il suo destino passivamente, piegando la schiena, ……andiamo a cercare le storie emozionanti degli zappatori in Steinbeck ed in Caldwell, nel Far west o più lontano ancora, quando a Rosarno ce ne sono di più emozionanti e suggestive. Trent’anni fa in Calabria i reduci arrivarono come pionieri nelle terre selvagge e battendosi all’ultimo sangue le conquistarono per trasformarle in colline fertili e verdeggianti. Di quegli zappatori che trent’anni fa osarono l’inosabile contro i baroni imperanti, Peppe Valarioti stava scrivendone la storia’’

 Così scrisse in quei giorni drammatici Giuseppe Marrazzo, l’indimenticabile giornalista che, per raccontare con serietà la nostra terra, la percorreva in lungo e largo e rimaneva lunghi periodi nei luoghi della lotta e dello scontro.

Peppe Valarioti, giovane professore di lettere e segretario della sezione comunista, nato nella povertà contadina si è nutrito di quella storia e la raccontava nei suoi scritti perché voleva unire il nome della sua Rosarno a Melissa, Torremaggiore, Montescaglioso, Portella della ginestra, ai fasci siciliani dei lavoratori, a Bronte ……ed alla grande e lunga epopea delle lotte per ‘la terra a chi la lavora’.  Scriveva la storia delle grandi lotte dei braccianti e dei diseredati contro i vecchi padroni: i baroni reazionari ed assenteisti; e allo stesso tempo assieme ai suoi compagni, diveniva protagonista della lotta contro i nuovi padroni, i boss della ‘ndrangheta e i loro complici. Il suo ricordo ed il suo esempio continuano ad essere protagonisti in tutte le lotte per il riscatto degli oppressi, per la libertà, l’uguaglianza e la pacifica convivenza di tutti gli esseri umani.

Giuseppe Lavorato

 

 

 

 

 

 

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