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Vincenzo Bruzzese, l’uomo che sognava lo sviluppo della Locride

Vincenzo Bruzzese, figlio di un meccanico di Grotteria, vuole tentare l’avventura: insediare l’industria meccanica nella Locride. Tuttavia, nel 1933, la Banca popolare di Gerace fallisce, anche a causa d’un cassiere che aveva sottratto ingenti somme. Arrestato dichiara che una parte della somma sottratta l’aveva investita nelle Grandi Officine per onorare un accordo segreto con Bruzzese. L’ingegnere nega di aver saputo la provenienza dei soldi, ma qualche giorno più tardi anche l’imprenditore viene arrestato. E, così, viene distrutto il sogno del riscatto della Locride.

 Nel 1932, anno X° dell’era fascista, un gruppo di motociclisti, guidati dall’ingegnere Vincenzo Bruzzese lascia la Locride per andare a sfilare in via dei Fori Imperiali, a Roma, alla presenza del Duce. Le motociclette belle e fiammanti erano state interamente realizzate a Gerace Marina, attuale Locri, presso la Grandi officine meccaniche Bruzzese.
Come scrive il professore Salvatore Futia nella sua pregevole ricerca, le stesse Grandi Officine avevano già fornito i bulloni per la nave Rex e per le ferrovie dello Stato.
Inoltre, stavano per iniziare la produzione di un motore aereo e si stavano organizzando per sfornare dieci motociclette al giorno. Oltre 3000 l’anno e di ottima qualità.
Mente e perno dello sviluppo era un personaggio eccentrico, creativo, preparato ed amante della sua terra: Vincenzo Bruzzese figlio di un meccanico di Grotteria, laureato in Svizzera, un’ottima sistemazione alla Fiat. Ma l’amore per la sua terra lo porta a tentare l’avventura: insediare l’industria meccanica nella Locride. Nascono le Grandi Officine Meccaniche Bruzzese. Nel giro di qualche anno, arriva ad assumere tra tecnici, maestranze ed impiegati ben 147 dipendenti di cui molte donne.
È intraprendente, il curatore fallimentare lo chiamerà il “sibarita” muovendogli l’accusa di essere un donnaiolo, come se ciò fosse un reato.
Non era amato dalla classi agiate e privilegiate della Locride.
Un uomo che crea ricchezza, lavoro e lo fa rompendo le regole d’ una società fondata sulle proprietà terriera, non poteva essere stimato.
Al massimo invidiato e chiacchierato.
Il sospetto lo circonda.
Nel 1933 la Banca popolare di Gerace fallisce, anche a causa d’un cassiere che aveva sottratto ingenti somme. Arrestato dichiara, tra le altre cose, che una parte della somma sottratta l’aveva investita nelle Grandi Officine per onorare un accordo segreto con Bruzzese.
L’ingegnere nega di aver saputo la provenienza dei soldi, ma qualche giorno più tardi anche Bruzzese viene arrestato. Oggi, sappiamo che non ci sarebbe stata alcuna necessità di arrivare al mandato di cattura, ed infatti i giudici non individuarono alcun rapporto tra il fallimento della banca e l’ingegnere. Tuttavia,  i magistrati di Gerace non si son fatti sfuggire l’occasione di dimostrare la propria potenza nei confronti di una persona molto conosciuta, ma pur sempre figlio di un meccanico di paese.
Tollerato, ma estraneo al circuito storico della “grandi famiglie”.
Comunque, Bruzzese dal carcere più che rivendicare la propria innocenza chiede
ai magistrati di non distruggere le Grandi Officine e, quindi, di non far perdere il lavoro a 147 dipendenti.
Chiede di non stroncare la possibilità di un decollo industriale per la Calabria. Scrive un memoriale destinato ai magistrati  nel quale dimostra che le grandi officine non era una industria decotta (e non lo era).
Numeri alla mano  e facendo le dovute proporzioni dimostra che le grandi officine sono meno indebitate della grande Fiat che era esposta con la Banca  americana Morgan per 300 milioni di lire.
Chiede l’intervento dell’IRI che era stato appena creato dal governo per stimolare la crescita industriale e che era già intervenuto in altre parti d’Italia del Nord per salvare industrie in difficoltà.
L’ IRI non muoverà un dito.
I magistrati, dopo aver arrestato l’ingegnere, procedono come una locomotiva verso il fallimento.
Non ascoltano ragioni.
Se lo stesso atteggiamento dei magistrati di Gerace fosse stato tenuto al Nord probabilmente non avremmo avuto la Fiat, la Piaggio, la Breda ecc.
Nessuna comprensione ci fu per le Grandi Officine Meccaniche Bruzzese che operava in un ambiente oggettivamente molto difficile, perché privo di qualsiasi esperienza industriale, lontano da altre fabbriche, decisamente povero.
Il governo fascista, soprattutto dopo la morte del quadrunvero Michele Bianchi, non mosse un dito, ne i dirigenti fascisti calabresi ne chiesero l’intervento.
I giudici non concessero neanche l’amministrazione controllata e con una fretta sospetta misero in vendita i macchinari che furono assegnati a prezzi ridicoli.
Importante era togliere di mezzo l’anomalia “Bruzzese” che comprometteva equilibri sociali secolari e che sconvolgeva una gerarchia sociale secolare a cui i magistrati non erano estranei.
Si disse, in quei giorni, che l’industria padana, (in questo caso con la complicità della classe dirigente fascista) , avesse colto l’occasione per eliminare dal mercato un abile concorrente.
In tal senso non ci sono prove. Ma è un dato di fatto che i governi nazionali siano stati sempre poco sensibili alle industre del Sud in difficoltà.
L’ingegnere Vincenzo Bruzzese probabilmente non era un santo (ma i santi non creano lavoro ), i bilanci dell’azienda non erano modelli di ordine e trasparenza, ma fu certamente un capitano di industria con notevoli capacità tecniche ed imprenditoriali e con una voglia matta di cambiare la sua Terra.
Più che ai soldi fu interessato alla sfida che aveva lanciato, scommettendo sullo sviluppo industriale del Sud.
Finita l’avventura delle Grandi Officine ritornò al Nord dove fu un apprezzato tecnico che lavorò nelle più importanti industrie del tempo.
Ho raccontato e, non a caso, quello che è successo circa 90 anni fa nella Locride.
Non fu  la ‘ndrangheta a distruggere l’industria locrese anzi leggendo tutto ciò che c’è da leggere della ‘ndrangheta non c’era traccia alcuna.
Una parte importante di responsabilità lo ebbe lo strapotere dei magistrati.
Un ruolo, in negativo, lo ebbero le industrie del Nord, il governo, i magistrati di Locri interpreti dell’invidia della aristocrazia rurale . Oggi, le cose sono cambiate, ma solo in apparenza.
Lo Stato di diritto non c’era 90 anni fa e non c’è adesso. In compenso abbiamo la ‘ndrangheta che per decenni ha avuto un trattamento ben più comprensivo rispetto a Bruzzese.
Trovo sconfortante che nel 1933 la classe dirigente  calabrese sia stata complice e supina, mentre lo zelante curatore fallimentare pagava gli operai per distruggere persino l’insegna imposta all’entrata della Grandi Officine.
Si voleva cancellare persino il ricordo.
Quando si parla di autonomia differenziata dobbiamo ricordarci che siamo in Calabria, dove non c’è mai stata vera classe dirigente. Oggi, meno che mai.
La responsabilità non è delle singole persone, ma del fatto che per molti anni siamo stati subalterni, siamo stati il Sud; quindi, colonia interna e sostanzialmente lo siamo ancora.
L’autonomia differenziata sarà una catastrofe per il Sud, ma anche un serio danno per il Nord.
Una rovina per l’Italia.
Non deve e non può passare ne com’è… né mascherata.

 

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