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Autonomia differenziata, il balletto della grande ipocrisia

Vito Pirruccio, Dirigente Scolastico in pensione e Presidente dell’Associazione Museo della Scuola “I Care!”, ci parla di autonomia differenziata e di cosa questo voglia dire per il Sud e per l’Italia.

Vito Pirruccio

Un Paese che da 163 anni non trova la strada per sentirsi unito dovrebbe avere la giusta dose di pragmatismo e maneggiare con cura, anche, quelle parole che possono creare, solo a pronunciarle, ulteriori e irreparabili fratture. Invece, in modo irresponsabile, temi divisivi, com’è quello sull’autonomia differenziata, vengono tirati fuori dal cilindro proprio nel momento in cui non c’è la minima tranquillità a dosare parole e scelte.

Sull’autonomia differenziata non si è avuto il coraggio di arrestare la corsa 23 anni fa, anzi la si è assecondata irresponsabilmente dietro ricatto della Lega allora fortemente in auge. Oggi, si invoca la rivolta e lo scontro, nel momento in cui il Paese è esausto e non crede, forse, più a nulla.

Dietro questo scenario, spero di sbagliarmi nella percezione catastrofica, l’ipocrisia regna sovrana.

Andiamo a ripassare i numeri di quello che è avvenuto 23 anni fa con la regia disastrosa di D’Alema e contorno e, purtroppo, col beneplacito del sonnecchiante, supino e vassallo cittadino-elettore.

E, allora, anche per distrarmi con la Storia, sono andato a ritroso di 23 anni, quando nell’Aula del Senato, era l’8 marzo del 2001, i parlamentari votarono, a colpi di maggioranza, la Riforma del Titolo V della Costituzione con l’introduzione dell’Autonomia Differenziata nella Legge fondamentale dello Stato. Poi, ho ripreso in mano i dati del Referendum Costituzionale confermativo del 7 ottobre 2001 e ho tirato le somme che appresso cercherò di illustrare.

L’ipocrisia di oggi, sciorinata da tutte le parti politiche e avallata dal “popolo bue”, ha nelle date dell’8 marzo e del 7 ottobre 2001 la sua pietra miliare che desidererei venisse impressa nella memoria collettiva italiana e meridionale, in particolare.

Siamo nella XIII Legislatura, Governo Amato II e regia politica affidata al predecessore on. Massimo D’Alema. Sulla spinta leghista, allora secessionista e successivamente “ammorbidita” in federalista, il duo Amato- Massimo D’Alema conduce in porto, dopo un lungo iter, le “Modifiche al Titolo V della parte seconda della Costituzione”. La Legge di riforma costituzionale, non essendoci la maggioranza qualificata dei 2/3, dovrà passare al vaglio elettorale, cosa che avverrà con nonchalance e ad amplissima maggioranza sette mesi dopo, il 7 ottobre del 2001.

Ma andiamo per gradi e mi scuso per la lunghezza dell’articolo.

Vado a riprendermi il resoconto sommario della seduta del Senato della Repubblica dell’8 marzo del 2001.

Il relatore sen. Antonello Cabras, sardo e del gruppo Democratici di Sinistra-Ulivo, dopo aver illustrato la trafila per arrivare all’approvazione della modifica della Costituzione e auspicato aggiustamenti attraverso interventi ordinari, si sofferma sull’aspetto finanziario: “… Si afferma poi il principio della fiscalità sul territorio, seppure con la garanzia di una funzione equilibratrice dello Stato in termini di coesione economica e sociale; si elimina la funzione centralista del controllo e si prevede un rafforzamento dell’autonomia attraverso l’attribuzione di particolari condizioni di autonomia anche alle regioni ordinarie”. Tra il detto e il non-detto si asseconda la spinta “federalista” della Lega.

Naturalmente i federalisti di sempre, come i rappresentanti del Trentino Aldo-Adige e della Valle d’Aosta, non sono assolutamente contrari, ma ci tengono (e lo fanno capire a chiare lettere) a preservare la loro amplissima autonomia a suon di quattrini.

Qualche voce contraria, sia pure impastata di gergo ideologico, in verità si leva e, letta a distanza di tempo, sa, pure, di lungimiranza. Guasta quell’ideologico che allontana l’ascolto e la stessa comprensione dei contenuti. Se ne fa interprete in sede di dichiarazione di voto il senatore emiliano di Rifondazione Comunista Fausto Co’ che, a nome del suo gruppo, si dichiara contrario: “Il federalismo rappresenta tradizionalmente il tentativo di unire, nel nome della solidarietà, popoli ed etnie diverse, anche sotto il profilo economico; invece, il disegno di legge costituzionale introduce elementi di divisione e frena lo spirito regionalista di cui l’Assemblea costituente aveva improntato la Carta fondamentale. Si tratta invero del tentativo di adattare l’assetto delle istituzioni alla globalizzazione capitalistica, attraverso l’introduzione del principio di sussidiarietà non solo verticale, ma anche orizzontale e quindi in funzione della privatizzazione dei servizi attualmente forniti dallo Stato; in senso disgregativo è previsto anche il potere delle regioni di intrattenere direttamente rapporti internazionali e di condurre intese…” Alla dichiarazione di voto dell’esponente di Rifondazione Comunista si unisce con l’applauso il sen. Russo Spena. I due di Rifondazione Comunista e il sen. Guido Dondeynaz, della Lista Vallée d’Aoste, sono i 3 soli voti contrari all’approvazione della Legge di modifica costituzionale.

Per il centrosinistra interviene il senatore Massimo Villoni eletto in Campania il quale scomoda la Storia: “Il disegno di legge in esame non solo rappresenta la riforma di una parte del sistema istituzionale, ma ha una portata storica in quanto è un passo per lanciare il Paese verso il futuro. Le opposizioni sostengono che si tratta di una piccola riforma, quando invece essa modifica profondamente l’assetto istituzionale, rendendolo più moderno senza rinunciare alla solidarietà tra zone forti e zone deboli…”

Persino il sen. Antonio Di Pietro, approdato in politica con il suo movimento Italia dei Valori dopo la furia iconoclasta di Tangentopoli, da molisano doc si fa felpato nel linguaggio e afferma: “Il movimento Italia dei Valori esprime un giudizio positivo sul disegno di legge costituzionale in via di approvazione, considerato un indubbio passo avanti nel cammino federalista, che pure avrebbe  potuto essere più deciso e coerente se fosse stato avviato prima e se non avesse dovuto subire l’apposizione strumentale del Polo”.

Il senatore del PCd’I Fausto Marchetti prende la parola per annunciare solennemente: “I Comunisti italiani manifestano la loro adesione al disegno di legge che contiene una riforma positiva ed equilibrata delle autonomie locali realizzando una dislocazione di funzioni a favore delle regioni e degli enti locali, pur sottolineando alcune riserve in merito al ruolo residuale assegnato allo Stato dall’articolo 114 e al ribaltamento di competenze delineato nella nuova formulazione dell’articolo 117. (Applausi dai Gruppi Misto-Com e DS. Congratulazioni)”.

Tuonano nell’emiciclo i senatori Verdi e per bocca del campano Giovanni Lubrano di Riccio viene fuori (Lo dovrebbe sapere l’attuale leader dei Verdi on. Angelo Bonelli!) la vera anima politico-istituzionale degli ecologisti nostrani: “…. da sempre convintamente federalisti, voteranno a favore del disegno di legge respingendo con forza le accuse di illegittimità costituzionale provenienti dall’opposizione. Si tratta dell’atto conclusivo di un processo riformatore che il Parlamento ha avviato nel rispetto del mandato popolare conferitogli. (Applausi dal Gruppo Verdi. Congratulazioni)”.

La destra non è da meno, ma non partecipa alla votazione per quell’amore innato verso i valori democratici e costituzionali e, per bocca dei senatori Francesco Servello, di Alleanza Nazionale, e del siciliano Enrico La Loggia, Forza Italia, dichiara di non prendere parte alla votazione, pur rimanendo in Aula. Il primo, lamentando “l’approvazione di importanti riforme costituzionali a colpi di maggioranza” (Sic!); il secondo, annunciando una raccolta di firme e una dura battaglia referendaria (che non ci sarà): “Per rispondere all’indignazione dei cittadini (Indignazione che vedeva solo l’on. La Loggia, perché non vi era in atto alcuna protesta eclatante né di cittadini, né di organizzazioni sindacali, né la vedremo sulle schede elettorali del referendum confermativo del 7 ottobre 2001 – n.d.r.)  … I senatori di Forza Italia e della Casa della Libertà, pur presenti in Aula, non parteciperanno alla votazione. (Vivi applausi dai gruppi FI, AN, CCD e LFNP. Molte congratulazioni”.

A conclusione della discussione parolaia i numeri parlano da soli:

  • Presenti: 178
  • Votanti: 177
  • Favorevoli: 171
  • Contrari: 3
  • Astenuti: 3

Più esplicito è il responso, a distanza di otto mesi, di quel “popolo sovrano” invocato e reclamato ad ogni piè sospinto come salvatore della Patria:

  • Votanti il 35,05% del corpo elettorale (16.843.420 su 49.462.222 aventi diritto al voto)
  • SÌ alla riforma costituzionale da parte del 64,2% dei votanti
  • Il NO raggiunge appena il 34,1%. In Calabria il dato non si discosta molto da quello nazionale: il 63,90% vota per la riforma. Il NO si ferma al 36,10%.

I Leghisti, tanto affezionati a quell’Italia “metà giardino e metà galera”, dopo il voto parlamentare confermato dal referendum, avranno pensato alla strofa della canzone di Francesco De Gregori, facendosi beffa del grido dei Martiri del Risorgimento, quando si sono visti serviti sul piatto d’argento (Anzi, d’oro) il loro proposito secessionista ammantato di autonomia.

Il resto è storia recente: col Governo Giallo-Verde l’Autonomia Differenziata entra nel famoso “contratto di governo” e, se non fosse caduto per dar posto a Draghi, avremmo ammirato l’accoppiata sfascista esibire l’ennesimo cartello, tipo quelli ostentati verso le telecamere “Decreto immigrazione”, “bonus in tutte le salse”, “reddito di cittadinanza”, “banchi a rotelle e similari”. Scelte che hanno ammorbato l’economia italiana da Nord a Sud, foraggiato lo spreco a vantaggio dei furboni-furbetti di turno e sfasciato i conti che paghiamo i soliti noti.

La Destra al Governo, dimenticando la Patria-Nazione più urlata in piazza che costruita nei luoghi istituzionali, si avvia a dare l’ennesimo colpo di grazia a questo Paese che per trovare un ragionevole equilibrio avrebbe bisogno di responsabilità e non di propaganda a buon mercato.

Gli amici e i compagni (In particolare, l’amico e compagno fraterno prof. Ilario Ammendolia) che si ostinano a sperare, questi fatti e questi numeri li conoscono meglio di me. Hanno la forza di credere che ci sia, ancora, un popolo del Sud disposto ad alzarsi sulla schiena della dignità e contrastare la volontà di certificare la divisione del Paese? Beati loro, li invidio! Ricordo, però, a me stesso che in Calabria si è visto di tutto, persino il Capo Leghista votato ed eletto insieme a tanti altri ascari pronti ad appuntarsi sul petto Alberto da Giussano e non certo i Martiri di Gerace. Questi eroi dimenticati li ricordiamo testardamente in pochi, perché neanche il tempio nazionale del Museo del Risorgimento di Torino ha spazio per loro.

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