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sabato, Luglio 27, 2024
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Ciao Pino, un giorno torneremo in gita

In occasione, del secondo anno della ricorrenza della morte di Pino Gregoraci, pubblichiamo l’articolo di Rosario Vladimir Condarcuri, scritto nei giorni successivi alla tragedia.

La morte in carcere di Pino Gregoraci ci impone una riflessione sul sistema carcerario italiano e sull’accanimento territoriale che lo Stato sta compiendo nei confronti del meridione. Il frenetico bisogno di giustizia che ha condannato troppe persone senza che fossero portate a termine le verifiche necessarie a comprendere il loro vero grado di colpevolezza, ha portato troppo spesso a gesti estremi che stanno rendendo i nostri paesi sempre più centri fantasma…

Scrivo della vicenda di Pino Gregoraci perché il mio essere mi impedisce di stare zitto. Questa è la nostra società, una società di mugugni, dove molti sperano che io scriva per dare voce ai loro silenzi. Ma ancora non hanno capito che questi silenzi portano morte e disperazione. Che a differenza di altri popoli, che a differenza di altre terre, abbiamo scelto un silenzio che non può che dare questi risultati.

Conosco Pino da molto tempo, da quando, alle scuole elementari, si giocava tutti insieme dietro la palestra a “Quattro e quattr’otto” oppure alla “Singa”. Non eravamo nella stessa classe ma eravamo dello stesso anno, ricordo in modo particolare una bella gita di terza media, se non sbaglio a Firenze, dove con Pino e con altri ci siamo divertiti un sacco. Come succede solo a quelle età i legami diventano forti anche senza la quotidianità, gli sfottò e le parole d’ordine che conoscevamo in pochi diventano un legame particolare. Poi, al di là di quello che scrivono della nostra terra, il bello del vivere in paese in quella fase e a quell’età era che non esistevano distinzioni, né di classe né di altro genere. Funzionavano le case educatrici come la scuola, l’YMCA e gli Scout, mentre la strada rimaneva la più grande insegnante dell’adolescenza. Ho citato già in altre occasioni “Marciapiedi” di Renato Zero, che descrive bene quante cose si facevano, come ci si divertiva in modo spensierato.

Qualche anno dopo Pino lavorava da Raffaele, alla pasticceria Strati, quando, una sera di fine estate, la sua vita fu segnata da un incidente in via dei Colli quando si scontrò con la sua moto contro un’auto, cadde rovinosamente a terra, ritrovandosi con l’arto tagliato. Da quel momento le nostre vite sono diventate sempre più distanti. Io sono andato a Bologna, ma non perdevamo mai l’occasione di vederci, anche solo per qualche minuto. Ho avuto modo di rivederlo qualche anno fa, quando il cognato Pietro ha aperto un nuovo bar pasticceria sotto la galleria dove c’era la sede de “La Riviera”. Ci vedevamo, con Pino, ci si guardava, si prendeva un caffè ci si intendeva al volo senza tante parole.

Ho riletto più volte l’articolo di Gioacchino Criaco e il pezzo del “Dubbio” che denunciano le storture che hanno portato Pino al gesto che ha posto fine alla sua vita. La rabbia è tanta. Noi, insieme a pochi altri, continuiamo la nostra battaglia garantista per Pino e per i tanti Pino che nemmeno conosciamo, ma che sappiamo subiscono l’inciviltà di questo sistema giudiziario, le barbarie che avvengono nelle carceri. Tutto questo è ingiusto, allontana lo Stato dalla gente, provoca ferite che non si potranno più curare. Il fatto è che sta diventando sempre più grave è rappresentativo dell’accanimento territoriale, del fatto che chi nasce a queste latitudini non abbia gli stessi diritti dei cittadini Italiani.

Chi, come me, combatte queste stato di cose denuncia da anni che la popolazione carceraria è composta per la maggioranza da calabresi, campani e siciliani, un dato, dimostrato dai numeri, che ci indica che il sistema non funziona, che lo Stato sta compiendo una sorta di genocidio di cui, un giorno, qualcuno dovrà rispondere.

Oggi il dolore è grande, la morte di Pino Gregoraci lascia un vuoto enorme nella sua famiglia, nei suoi cari e nella “mia Siderno”, che sta scomparendo troppo rapidamente pezzo dopo pezzo.

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