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venerdì, Maggio 17, 2024
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Controrivoluzione Rossa: il pustch di Budapest

Matteo Lo Presti analizza le vicissitudini, i fatti e le reazioni politiche dei fatti riguardanti il putsch di Budapest a metà del secolo scorso.

Matteo Lo Presti

“L’altro ieri notte è stato scatenato a Budapest un “putsch” controrivoluzionario. Mentre scriviamo i ribelli stanno arrendendosi: il “putsch” sembra avviato alla sconfitta. Non siamo di fronte a manifestazioni di piazza che abbiano dato luogo a conflitto, disordini e provocazioni. Si tratta di un attacco armato, diretto contro i gangli vitali della capitale ungherese, i centri dello Stato, i nodi decisivi. E’ chiaramente volto a rovesciare con violenza il regima di democrazia popolare, il governo legittimo, l’assetto sociale e politico del paese. E’ un altro dei criminosi tentativi volti a spezzare con la sedizione e con forza il cammino della rivoluzione socialista nel mondo. Quando crepitano le armi dei controrivoluzionari si sta da una parte o dall’altra della barricata.  Un terzo campo non c’è. Noi siamo per il socialismo, per coloro che in questo momento lo difendono con le armi alla mano in Ungheria. Ed auguriamo ad essi la vittoria”. Così il 25 ottobre 1956 Pietro Ingrao pubblicava sulla prima pagina dell’Unità, questa dura reprimenda contro le manifestazioni antisovietiche scatenate a Budapest. Anche allora come oggi in Ucraina e Gaza la rissa ideologica aveva prevalenza sull’ingiusta catastrofe di morti, vittime dell’arroganza politica dell’URSS che, in piena guerra fredda, voleva ribadire il proprio dominio sui paesi dell’est europeo, incurante della loro libertà e del loro desiderio di democrazia.

Come controcanto  il quotidiano socialista “Avanti “pubblicava  il documento con cui la CGIL  il 27 ottobre 1956 ,deplorava l’intervento delle truppe sovietiche in Ungheria “Di fronte ai tragici fatti di Ungheria  e alla giustificata commozione che hanno suscitato nel popolo italiano, forze reazionarie cercano di inscenare speculazioni miranti a perpetuare la divisione tra i lavoratori ,a creare disorientamento tra le loro file, a ingenerare sfiducia verso le loro organizzazioni  per indebolire la capacità di azione a difesa dei loro interessi economici e sociali. La CGIL chiama i lavoratori italiani a respingere decisamente queste speculazioni e a portare avanti il processo unitario in corso nel paese per il trionfo nei comuni ideali di progresso sociale, di libertà e di pace”.

Il dibattito fu intenso e pieno di contraddizioni. Come accade oggi per l’invasione della Ucraina da parte delle milizie bolsceviche, la verità parola che in russo denominava il maggiore allora quotidiano sovietico PRAVDA, non riusciva a farsi strada.

I drammatici avvenimenti tra la fine di ottobre e i primi giorni di novembre vedono gli USA di Eisenhower stanziare  20 milioni di dollari per cibo e medicinali. Kruscev incontra Tito il quale loda “inevitabile e ragionevole l’invasione”. Il 3 novembre in un comizio a Torino Giorgio Amendola auspica, con il caloroso applauso degli astanti, un risolutivo intervento armato dell’URSS in Ungheria. Imre Nagy a capo del governo ungherese inserisce tra i ministri anche il filosofo Gyorgy Lukàcs. Il 4 novembre il settimanale dei giovani comunisti Nuova Generazione diretto da Sandro Curzi ospita un documento critico degli studenti medi (tra i firmatari Achille Occhetto segretario del circolo universitario milanese) sulla rivolta in Ungheria intitolato “il furore attraversa il cuore dei giovani comunisti”. Invano Giorgio Amendola e Gian Carlo Pajetta invocarono provvedimenti disciplinari, ma Togliatti non volle intervenire. Il “Migliore” aveva già pronunciato parole solidali con il PCUS, in una lettera nella quale invitava, con coerenza e concreta riflessione, a porre fine alla rivolta ungherese con la forza. Accentuando la sua preoccupazione per il dissenso interno al PCI (da una parte coloro che sostenevano che le responsabilità di quanto accaduto in Ungheria, risiedevano nell’abbandono dei metodi stalinisti. Dall’altra parte coloro che accusavano la direzione del PCI di non avere preso posizione in difesa dell’insurrezione di Budapest, da appoggiare e che era giustamente motivata). Ma Togliatti informa il PCUS della preoccupazione di poter essere sostituito da Giuseppe Di Vittorio che, in un documento non approvato dal partito, si era schierato dalla parte di rivoltosi ,che Togliatti al contrario definisce “esaltati”. Di Vittorio fu costretto a ritrattare la sua posizione, per non essere cacciato dal partito.

Ci fu un appello  per la libertà d’Ungheria, dall’Espresso e dal Mondo  sottoscritto da un centinaio di intellettuali terza forzisti e socialisti : Bobbio, Scalfari, Moravia Salvemini,Montale,Flaiano,Zevi,Ragghianti,Pannunzio,Chiaromonte,Bassani Benedetti, Codignola, Petrassi ,Ernesto Rossi, Silone, Spini, Valiani, Bruno Zevi. Tutti preoccupati “di nuovi pericoli di guerra e di minacce di reazioni fasciste ,chiedono agli  uomini liberi di levare una proteste ed un appello  affinché al popolo ungherese  sia dato il diritto di scegliere in piena libertà quelle istituzioni che meglio rispondano agli ideali democratici”. A Roma all’Eur si aprì dall’8 al 14 dicembre l’VIII congresso del PCI, nei giorni in cui la crisi di Suez vedeva il popolo egiziano aggredito da Israele. Togliatti non arretrò. Anzi ribadì la dura necessità che ha reso inevitabile l’intervento sovietico “per sbarrare la strada al fascismo e alla guerra, per adempiere non solo ad un dovere di classe, ma ad un dovere verso tutte le forze della democrazia e della pace “. Al congresso e alle sue assemblee decentrate avevano partecipato una media del 20-30% degli iscritti. Cioè 500mila circa dei supposti due milioni di aderenti, un quarto di militanti: i più stalinisti da un lato e dall’altro i più decisi a battersi contro il risorgente, sanguinoso stalinismo. Iniziò da lì la eliminazione di tutti i delegati ostili all’indirizzo di Togliatti. Così denunciò Fabrizio Onofri che già nel luglio ’56 aveva compiuto vistose critiche alla gestione burocratica del partito e l’abbandono della lotta per aprirsi una via italiana e democratica verso il socialismo e che era stata abbandonata”.  L’articolo pubblicato su “Rinascita “allora diretto da Togliatti fu denigrato, anche se non poteva non essere pubblicato, ”ma che meritava una risposta sprezzante”. Fu titolato infatti “un inammissibile attacco alla politica del partito “e Togliatti replicava sulle stesse pagine “La realtà dei fatti e della nostra azione rintuzza l’irresponsabile disfattismo”. Onofri nel gennaio ’57 fu espulso dal partito e ha lasciato testimonianza lancinante sul fatto che i compagni del PCI che fino allora gli erano stati vicini, evitassero addirittura di salutarlo per strada. Stesso comportamento che era stato riservato ad Enrico Terracini al quale, in carcere, nessuno parlava perché aveva abbandonato la linea politica di Stalin.  Moralmente imbarazzante l’intervento di Concetto Marchesi. Famoso latinista noto per avere lanciato dopo l’8 settembre ’43 un proclama antifascista agli studenti padovani, pensò bene di rifugiarsi in Svizzera. Critico verso il XX congresso sovietico che aveva denunciato a suo dire”  sulla vasta scena del mondo  quel suo fragoroso confessionale  di domestici peccati; quel congresso  rivelava una serie di  sconsigliatezze(sic!) di ingiustizie, di errori commessi dall’Unione Sovietica  e più ancora in quelle democrazie popolari  dove i governanti non  vollero vedere  le reali necessità dei propri paesi” Ma poi la curva dell’ intervento navigava verso un’ ipocrita apologia “  Gli operai e i soldati russi hanno creato con la rivoluzione di ottobre qualcosa di sacro,  nel quale noi vediamo incominciata la nuova storia del mondo. Le armate russe si muovono su un cammino che non deve confondere la loro voce con quella degli eserciti bianchi e dei concistori sacerdotali. E’ indubitabile che senza l’intervento delle forze sovietiche l’Ungheria sarebbe oggi in mano alla più spietata reazione”. E per essere moderno si rallegrava” perché Luigi Longo sulle pagine di Vie Nuove (settimanale del PCI aveva aperto le colonne alle belle figliole”. E spiegava passando senza tormenti dalla invasione alle belle gambe che “la mondanità è la propaganda che entra da tutte le porte, del ricco e del povero e si fa ascoltare da tutte le orecchie e applaudire da tutte le mani”, Che dire? Dalla tragedia della violenza spietata alle gioie dell’avanspettacolo.

Fu accolto con un silenzio agghiacciante l’intervento del delegato di Cuneo Antonio Giolitti che denunciò l’impossibilità di continuare a definire legittimo democratico e socialista un governo come quello contro i quale è insorto il popolo ungherese, perché in base ai principi del socialismo  era ingiustificabile l’intervento sovietico.

Deciso avversario di Giolitti fu Giorgio Napolitano che imbellettando il suo discorso con l’esaltazione dello spirito critico di Gramsci (valido nel 1956, ma non nel decennio in cui Gramsci fu vilipeso ed emarginato politicamente) infieriva contro Giolitti perché “aveva sostenuto che sia in Polonia che in Ungheria hanno difeso il partito non quelli che hanno taciuto, ma quelli che hanno criticato”. E invece continuava il futuro presidente della Repubblica “l’esercito sovietico aveva impedito che l’Ungheria cadesse nel caos e nella controrivoluzione, tanto da essere capace di difendere non solo gli interessi militari e strategici dell’URSS, ma a salvare la pace nel mondo”. Appare invece di più autentica credibilità l’azione giornalistica sviluppata da Indro Montanelli, fascista pentito e liberale conservatore di intelligente spessore che trovandosi a Budapest ebbe a scrivere sul Corriere della Sera che a Budapest si era accesa una rivolta non borghese, di popolo di studenti, di intellettuali e di contadini e di operai che non contestavano il socialismo, ma ne sognavano una diversa versione. Montanelli racconta quello che ha visto “Per quattro giorni e quattro notti Budapest fu una fornace sulla quale si abbatteva un uragano di fuoco. Comunisti che si sono ribellati ad un certo comunismo”. Esilaranti le narrazioni della sua sosta in un albergo a Budapest costretto a dormire nello stesso letto con il socialdemocratico Matteo Matteotti (figlio di Giacomo). Solo Togliatti continuò ad usare il termine “fatti di Ungheria “per spiegare, attenuandone i toni, il senso di una tragedia politica dopo la quale “tutto doveva rimanere uguale a prima”.

Infatti, Imre Nagy (1896-1958) dopo avere aderito al PCUS rientrò la patria nel 1953 diventando primo ministro, tentando di portare il suo paese su posizioni autonome rispetto a Mosca. Destituito da Rakosi nel 1955 venne richiamato al governo nel 1956, stroncata l’insurrezione, dopo avere denunciato il Patto di Varsavia   e avere richiesto l’intervento delle Nazioni Unite, subì un processo farsa e fu impiccato. Togliatti richiamò, impietoso come sempre, su Paese Sera “le leggi inesorabili della lotta politica”. Invano Ignazio Silone e Nicola Chiaromonte con il loro periodico Tempo Presente, chiedono il rispetto della democrazia   e così Pio XII che in un radio messaggio implora “la commozione del mondo   dimostra quanto sia necessario ed urgente restituire la libertà a ai popoli che ne sono stati spogliati”. Italo Calvino, Natalino Sapegno, Loris Fortuna, Delio Cantimori si dimissionano dal partito; Togliatti parla di loro ironizzando, Amendola li definisce  “traditori e buffoni”. Nelle lezioni del maggio 58 il PCI incrementa i propri voti. Albert Camus prende posizione senza mezzi termini a fianco della rivoluzione d’Ungheria “questo popolo massacrato è nostro e non dobbiamo tradire, qui o altrove, ciò per cui i combattenti ungheresi sono morti, non giustificare mai, qui o altrove, ciò che li ha fatti cadere. Gli operai egli intellettuali ungheresi ci hanno fatto comprendere che la loro sventura è la nostra, anche le loro speranze ci appartengono, a dispetto della loro miseria, dell’esilio, delle catene. Ci hanno lasciato una sublime eredità che dobbiamo meritarci: la libertà che non hanno scelto, ma che in un sol giorno ci hanno reso”.

Toccherà decenni dopo trovare, nel PCI trasformato in altre strutture organizzative  tracce di rivisitazione non più ideologizzata del drammatico ’56.Piero Fassino racconta, dirigete  del DS,  che nel 1988 partecipò alla commemorazione al cimitero parigino Pére Lachaise davanti al monumento costruito dagli esuli ungheresi in ricordo di Imre Nagy  .Racconta “ la mattina dell’evento mi telefonò Gian Carlo Pajetta  che disapprovava  questa mia scelta, Ribattei che ero stato autorizzato dal segretario del Partito. La comunicazione fu interrotta bruscamente”. Secondo Fassino era giunto il momento di dire parole chiare e definitive sul ’56.

Norberto Bobbio su quotidiano “La Stampa” il 16 ottobre ’86, trenta anni dopo, scriveva “Come potevano essere errori, se il partito è, qualunque cosa faccia, la bocca della verità? come potevano essere errori se l’azione politica può essere giudicata solo in base alla massima che il fine giustifica i mezzi? e quella repressione pur nella sua spietatezza era necessaria al raggiungimento del fine? Come potevano essere errori se il fine era grandioso, radioso, tanto nobile da tollerare, anzi da richiedere mezzi non nobili ed anche ignobili? La società senza classi è sempre più lontana e i mezzi adoperati dal partito guida per attuarla hanno condotto sino ad ora ad un fine diametralmente opposto. Non possono riconoscere quei giudizi di allora come errori senza risalire alle origini, cioè senza riconoscere come menzognera quella concezione del partito, della politica, della storia che li ha fatti essere quello che erano e che oggi non possono più essere”.

Pietro Ingrao poi diventato presidente della Camera ancora nel 1966 aveva rivendicato la scelta dell’indimenticabile ’56 “Da una parte sola della barricata “per realizzare un mutamento di struttura  e di potere per una trasformazione democratica e socialista come problema attuale della società italiana . Quella scelta coglieva e riaffermava il valore decisivo, rinnovatore e liberatore, che ha l’esistenza dell’URSS e dei paesi socialisti”. I fatti storici ancora una volta messi sotto i piedi, considerato che di quel contesto politico non esiste più nulla.

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