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lunedì, Aprile 29, 2024
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È tempo di esercitare l’empatia di comunità

Una ragazza sale sul ponte, in stato confusionale, si siede sulla balaustra che affaccia sulle acque del Tanaro. L’intenzione è inequivocabilmente di suicidarsi. Arriva, però, una pattuglia di Carabinieri e Salvatore, uno degli agenti, sale con lei sulla balaustra. Le parla. Le sta accanto. Senza toccarla, con delicatezza divide i due metri quadrati di cemento che sovrastano la passerella pedonale. L’esercizio dell’empatia a picco sul Tanaro. Salvatore la convince, discutono di fragilità. La ragazza scende, aiutata dagli altri Carabinieri. È salva. Salvatore è un eroe empatico.

 Mario Alberti

Noi scriventi, si sa, prendiamo spunto da ciò che accade intorno.

E tante cose sono accadute negli ultimi giorni.

Due storie però accendono particolarmente il dibattito, specie sui social.

Piazza digitale che, purtroppo, invece di integrare ha sostituito i luoghi reali di confronto.

Ma questa è la solita altra storia che fa irruzione in modo scomposto nei miei racconti. Scalpita sfrenata, questa storia, ma la tengo a bada e la riservo per un altro momento.

Adesso veniamo alle due storie.

Alessandria, ponte Meier. Accade il sei aprile e le immagini sono un po’ ovunque, ma durano poco, nel mondo svelto del virtuale.

Una sveltina digitale che forse meritava maggiore attenzione.

I fatti.

Una ragazza sale sul ponte, in stato confusionale, si siede sulla balaustra che affaccia sulle acque del Tanaro.

L’intenzione è inequivocabilmente di suicidarsi.

“Un omicidio timido”, come scriveva Cesare Pavese, sta per consumarsi.

Arriva, però, una pattuglia di Carabinieri e Salvatore, uno degli agenti, sale con lei sulla balaustra. Due vite appese sull’acqua.

Le parla. Le sta accanto. Senza toccarla, con delicatezza divide i due metri quadrati di cemento che sovrastano la passerella pedonale.

L’esercizio dell’empatia a picco sul Tanaro.

Salvatore la convince, discutono di fragilità, trova il tono e la prossemica giusta, non la invade, non la distanzia.

La ragazza scende, aiutata dagli altri Carabinieri.

È salva.

Un altro omicidio timido è stato evitato.

Salvatore è un eroe empatico, ma si schermisce.

Nulla di eroico, afferma. Dovere.

Ma in realtà l’empatia è “un modo di essere”.

Oltre ogni tecnica, l’empatia è un interstizio esecutivo dell’animo che ha spinto il Carabiniere a saltare sulla balaustra, assumendosi la responsabilità di una vita.

Che ha salvato.

Chi salva una vita salva il mondo intero (cit.).

Cambia lo scenario, e la bilancia della vita fa da contrappeso con una atroce bruttezza alla grande bellezza di Salvatore sul ponte Meier.

Stesso sesto giorno di un aprile invernale.

Treno regionale Milano – Bergamo.

Una ragazza esattamente della stessa età di quella di Alessandria.

Viene affrontata da una persona, sono in tre nello scompartimento.

Lei, lui, l’altro.

Lui la schiaccia contro il vetro. Lei capisce cosa sta per subire. Perde conoscenza.

Lui la violenta.

Anche l’altro la violenta e nel modo peggiore.

Appena capisce cosa sta per accadere, esce dallo scompartimento lasciandola sola.

Si fa i “fatti propri”, metodo legittimato dal sentire comune per poter vivere cent’anni.

Cazzate.

Diciamolo forte e chiaro.

Non si sa chi è lui, non si sa chi è l’altro.

Lei sappiamo chi è.

È nostra figlia.

D’un tratto, leggendo questa storiaccia, mi trovo catapultato nei viaggi di tutti i giorni.

Percorro la strada ferrata Melito – Gioiosa Ionica, a tutte le ore.

Da otto anni.

E ricordo i volti spauriti delle giovani donne che salgono sui treni della sera, si guardano attorno, si siedono con le mani in grembo.

Poi vedono quel signore con i capelli bianchi leggere un anacronistico libro di poesie, e si rassicurano.

Ma solo un po’.

Il predatore può nascondersi ovunque, anche tra le pagine più belle.

Alla fermata di Bovalino o di Bianco le ragazze scendono di corsa, verso la sicurezza delle proprie case.

E accade così tutti i giorni, nelle ore meno affollate.

Ecco, le cose come sempre sono più semplici di quanto potrebbero sembrare.

Forse occorre esercitare l’empatia di comunità.

Non me ne vogliano Rogers o Gordon per la licenza che mi prendo nel coniare questo azzardato neologismo.

Bisogna sentirsi madri e padri di tutti i figli appesi su un ponte, o contriti sui sedili di similpelle anneriti, a tarda sera, su un treno rumoroso.

Dobbiamo far sentire a queste anime impaurite la vicinanza di chi non vuole campare cent’anni tenendo negli occhi o dietro la schiena vigliacca e ignava le urla di una ragazza violata.

La parola è la stessa.

Empatia.

Ovvero la capacità di mettersi nei panni dell’altro, sentire il suo dolore, la sua paura, il suo disagio.

Sentire l’altro nella totalità.

La stessa parola che in un caso è esplosa, nell’altro è implosa. In un caso ha assunto il volto di Salvatore Germanà, uomo nero a strisce rosse.

Nell’altro, il non volto di uno sconosciuto passeggero in fuga.

Termino il pezzo mentre alla stazione suona la campanella. Sta arrivando il regionale di Trenitalia. Accanto a me una ragazza con lo zainetto in spalla.

La faccio passare, la seguo con gli occhi, si siede a metà scompartimento.

È serena, almeno sembra.

Mi siedo due file più avanti, ne vedo i capelli sciolti, è sola. Smanetta allo smartphone.

Tutto sembra tranquillo. Si parte.

Apro lo zaino.

Oggi tocca a Jean Paul Sartre.

Come dire, nulla avviene per caso.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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