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venerdì, Marzo 29, 2024
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Il tempo dei ricordi

Ripercorriamo, insieme, gli avvenimenti e i personaggi più importanti che hanno segnato la data del 26 Giugno.

Accadde che:

1826 (195 anni fa): viene brevettata la bicicletta con due ruote allineate, di cui l’anteriore sterzante, ma senza pedali né freni, per la cui propulsione era necessario che il guidatore, seduto sul sellino come nelle attuali biciclette, esercitasse una spinta puntando i piedi sul terreno; sempre tramite l’uso dei piedi, il guidatore poteva anche frenare. Fu il barone Karl Von Drais ad inventare la prima antenata della bicicletta. Tutto è iniziato quando lasciò il suo impiego statale e decise di dedicare il suo tempo libero alla ricerca di un mezzo di trasporto alternativo ai cavalli. Nel 1817 ideò quello che per lui sarebbe diventato il nuovo mezzo, chiamato Laufmachine, macchina da corsa, in grado di coprire una distanza di circa 13 chilometri in meno di un’ora. L’aspetto era totalmente innovativo: 22 chilogrammi il peso complessivo, telaio in legno e la novità data dall’introduzione dello sterzo e del supporto “appoggia-pancia” per facilitare la spinta dei corridori. La stampa, che rimase affascinata dall’invenzione, la ribattezzò subito draisine, in onore del barone. In Inghilterra, invece, rinominarono il mezzo “Hobby horse”, cavallo da divertimento,  apportando le prime modifiche. Nonostante il successo iniziale, il nuovo mezzo dovette far fronte a vari problemi, uno su tutti la pericolosità legata allo scarso equilibrio. Per diminuire la pericolosità sono stati costruiti altri modelli, stavolta in ferro, a tre o quattro ruote. Ma solo dopo quarant’anni sono stati introdotti i pedali.

1963 (58 anni fa): John F. Kennedy pronuncia la famosa frase: ICH BIN EIN BERLINER a Berlino Ovest, in occasione della visita ufficiale alla città. Tradotta in italiano la frase significa «Io sono un berlinese» e divenne una delle più note e iconiche della breve presidenza di Kennedy, che fu assassinato cinque mesi più tardi. La frase fu pronunciata con l’intento di comunicare alla città di Berlino e alla Germania stessa, seppur entrambe divise, una sorta di vicinanza e amicizia degli Stati Uniti dopo il sostegno dato dall’ Unione Sovietica alla Germania Est nella costruzione del muro di Berlino, due anni prima, come barriera per impedire gli spostamenti dal blocco orientale socialista all’ occidente. L’idea della frase venne in mente al presidente all’ultimo momento, così come la scelta di pronunciarla in tedesco. Kennedy chiese al suo interprete di tradurgli “I am a Berliner”, mentre stava già salendo le scale del municipio. In seguito, si esercitò con la pronuncia della frase nell’ufficio del sindaco Willy Brandt e tenne in mano un foglietto su cui aveva annotato la pronuncia. Tuttavia, fu criticato per aver fatto un discorso che riconosceva lo status quo di Berlino nella realtà in cui era. Ufficialmente, lo status di Berlino, in quel momento, era di occupazione comune delle quattro potenze alleate della seconda guerra mondiale, ciascuna con un proprio territorio di competenza. Fino a quel momento, gli Stati Uniti avevano affermato che quello era lo status, benché la situazione corrente fosse assai diversa. Il discorso di Kennedy segnò il momento in cui gli Stati Uniti riconobbero ufficialmente che Berlino est faceva parte del blocco sovietico insieme al resto della Germania Est. Il discorso, durante il quale Kennedy pronunciò la frase, è considerato uno dei suoi migliori e un momento celebre della guerra fredda.

Scomparso oggi:

1967 (54 anni fa): muore a Firenze Don Lorenzo Milani presbitero, scrittore, docente ed educatore cattolico. Nato a Firenze il 27 maggio 1923, la sua figura di prete è legata all’esperienza didattica rivolta ai bambini poveri nella disagiata e isolata scuola di Barbiana. Secondo dei tre figli di Albano Milani e Alice Weiss, (madre di origine ebrea), Lorenzo appartiene ad una ricca e colta famiglia fiorentina di scienziati e cattedratici; conosce bene il valore della cultura, ed ha una passione: la pittura. Dopo la maturità classica, mentre sta affrescando una cappella sconsacrata, scopre la sua vocazione e si converte così al cattolicesimo. Nel 1943 entra in seminario, la famiglia non approva la sua scelta religiosa infatti, alla cerimonia della tonsura, l’atto d’ingresso alla vita ecclesiastica, nessuno dei parenti sarà presente. Don Milani si convince che sia dovere della Chiesa occuparsi dell’istruzione dei suoi fedeli, soprattutto dei più deboli. Maestro, dunque, prima ancora che prete. Fonda la scuola popolare, dove inizia il suo impegno: dare alla gente, di cui è spiritualmente responsabile, il massimo possibile di acculturazione nel senso di conoscenza, ma soprattutto di capacità critica. Decide di partire dalla lettura dei giornali in classe, analizzando i temi dell’attualità e soffermandosi a lungo sui termini difficili. Egli è convinto che solo la cultura possa aiutare i contadini a superare la loro rassegnazione e che l’uso della parola equivalga a ricchezza e libertà. A San Donato il sacerdote costruisce una comunità, dove ogni regola gerarchica viene sconvolta. È un uomo scomodo, esigente, provocatore e, per questo suo carattere, viene isolato e nominato priore di Barbiana, un piccolo paesino sui monti del Mugello. Appena arrivato fa un gesto simbolico: costruisce dal nulla e nel nulla la sua scuola popolare per giovani operai e contadini acquista un posto dal nulla e nel nulla, si preoccupa di aiutarli a liberare la loro dignità e la loro cultura, attraverso la parola per essere meglio in grado di affrontare le difficoltà della vita. Per convincere i genitori a mandarvi i propri figli, il parroco utilizza ogni mezzo, persino lo sciopero della fame. Quella di Barbiana è una scuola all’avanguardia; si studiano le lingua straniere: l’inglese, il francese, il tedesco e persino l’arabo. Si organizzano viaggi di studio e lavoro all’estero. Egli, spesso, tiene lezioni di recitazione per far superare le timidezze dei più introversi e costruisce una piccola piscina per aiutare i montanari ad affrontare la paura dell’acqua. Nella scuola di Don Milani si studia dodici ore al giorno, 365 giorni all’anno, l’insegnamento religioso non ha nulla di ortodosso; si legge il Vangelo, ma senza mai il tentativo di indottrinare i ragazzi. Il motto della scuola è: I care, ovvero mi riguarda, mi sta a cuore, mi prendo cura. Nel 1967 Don Lorenzo Milani scuote la Chiesa e tutta la società italiana con un libro: “Lettera a una professoressa”, scritto insieme ai ragazzi della scuola di Barbiana. Il libro denuncia l’arretratezza e la disuguaglianza presenti nella scuola italiana che, scoraggiando i più deboli e spingendo avanti i più forti, sembra essere ispirata da un principio classista e non di solidarietà; un atto d’accusa verso l’intero sistema scolastico. È scritto in un italiano semplice; la prima stesura viene fatta leggere da un contadino che sottolinea le parole che non capisce, affinché l’autore possa apportare al testo tutte le modifiche necessarie e renderlo accessibile a tutti. Il libro, però, riceve un’accoglienza fredda, un’unica eccezione illustre: Pier Paolo Pasolini. Soltanto dopo la morte del priore il libro diventa un caso letterario, diventando uno dei testi sacri del ’68 italiano. A causa di una grave malattia, il morbo di Hodgkin, di cui soffre da anni, Don Lorenzo, si spegne, a soli 44 anni. Così come aveva chiesto, viene seppellito nel piccolo cimitero di Barbiana con i paramenti sacri e gli scarponi da montagna. Le ultime parole del suo testamento sono ancora una volta per i suoi ragazzi: “Ho voluto più bene a voi che a Dio, ma ho la speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto al suo conto”.

 

 

 

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