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domenica, Maggio 5, 2024
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La Calabria ruminante e passiva

Filippo Veltri ci parla di Calabria e calabresi, di risorse e deficit, di possibilità mancate e di quelle ancora a portata di mano, insomma, ci parla di noi.

Ho aspettato un po’, forse troppo, per scrivere di una cosa che avevo ascoltato in diretta sin dai primi d’agosto e che poi ho, più o meno ritrovato identica ma su pagina scritta alcune settimane dopo: parlo della pensata di Mimmo Cersosimo, docente dell’Unical (e non solo) sulla Calabria. Ho atteso perché’ mi sembrava (ed ancora oggi in parte mi sembra) un quadro dipinto a tinte fosche, forse troppo fosche, con le tante maglie nere collezionate dalla Calabria ma che poi alla fine disegna uno sviluppo possibile.

I guai della sanità, il tasso di disoccupazione, i giovani che scelgono di vivere e lavorare lontano dalla loro terra, la pressione della criminalità organizzata. Una società definita da Cersosimo «ruminante, adattiva, ma soggetta ad una modernizzazione passiva». In una parola «estrema».

Andiamo a rileggere il saggio scritto per il Mulino “Calabria, l’Italia estrema“: Cersosimo si sofferma sui mali di una regione «dove la somma delle patologie nazionali si raccolgono». E poi ci sono i soliti stereotipi. La ‘ndrangheta genera altra ‘ndrangheta? «C’è una narrazione negativa sulla Calabria: terra degli ultimi, maledetta, di ‘ndrangheta, di scansa fatiche, di illegalità, di evasione fiscale. Siamo entrati in un meccanismo perverso dove se evadi quasi quasi ti seguo, se tendi a sopraffare le idee altrui lo fanno anche gli altri, quindi lo stereotipo alimenta lo stereotipo e alcune volte quando succede la realtà si avvicina molto allo stereotipo».

Chi è, o chi sono, i colpevoli di questo inesorabile declino? «Le colpe sono tante, soprattutto di alcune politiche. Il liberismo ha mortificato e marginalizzato le aree più lontane dal centro», dice Cersosimo che poi ammette: «anche i calabresi hanno le loro colpe, in qualche modo si sono assuefatti adattandosi a questo status quo, c’è una sorta di convenienza al non sviluppo, una convenienza sociale diffusa». Cosa si può fare? «Si potrebbe fare molto, è difficile che le forze interne riescano a risolvere e superare il problema. C’è bisogno di un destabilizzatore esterno. Qualcuno che ha interesse a rompere questo equilibrio, ad interrompere il sottosviluppo ma non siamo noi, deve essere qualcuno esterno».

Ad esempio? Forse lo Stato o l’Europa, sicuramente noi non ce la facciamo da soli». Magari gli studenti dell’Unical e delle altre Università calabresi. «Da soli non ce la fanno, molti vanno via. I migliori spesso tendono ad andare via, quindi c’è una sorta di exit, c’è l’abbandono e molte energie sane – quelle che potrebbero contribuire al cambiamento – mollano la Calabria e svanisce qualsiasi possibilità di cambiare le cose». La Calabria è dunque perduta? È destinata a svuotarsi come indicano le proiezioni statistiche? Resterà lontana e impenetrabile, nonostante la sua bellezza variopinta, che Leonida Repaci descrisse a futura memoria? Continueremo, noi che ci abitiamo, a ignorarne i dati e fatti crudi, a esorcizzarli, per esempio, con il ricordo stucchevole e inattuale dell’antica scuola pitagorica? Per quanto tempo potremo ancora sottovalutare le storture e le risorse in ombra di questa regione? A chi gioverà nascondere le nostre colpe, in perpetua malafede, dietro al mostro, al mito della ’ndrangheta? Sono domande in cerca di risposte.

Alcune settimane fa di tutto ciò se ne è poi parlato all’Unical, all’interno di un seminario proprio sul saggio di Cersosimo e l’economista e’ andato ancora più giù: la Calabria ha un disperato bisogno di «liberarsi dalle edulcorazioni retoriche: la tipicità senza tipico, i borghi senza comunità, i paesi appesi sul mare senza acqua nei rubinetti delle case, l’accoglienza senza ospedali umanizzati».

Conclusione: Cersosimo ha ragione nel quadro d’assieme. Pessimista? Semplicemente realista? Ma il punto è ragionare su come fare: dove può andare la Calabria con tali limitazioni? Non è giunto il momento di dirci la verità, di svecchiare ad esempio – tanto per dirne una –  i reparti amministrativi, di reclutare risorse giovani, che sono il leitmotiv di tanta retorica politica? Non c’è bisogno, nel settore amministrativo pubblico della Calabria, nei Comuni e altrove, di formazione adeguata ai tempi e di una capillare verifica dei risultati? Cambierebbero le cose? Forse ma è l’unica strada.

Il resto sta nei calabresi stessi, se sapranno mettere in rete le cose buone e respingere quelle cattive. Una botta di vitalità in un mare di guai è quello che ci vorrebbe.

 

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