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lunedì, Aprile 29, 2024
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La DC (e il PCI): la versione di Ambrogio

Filippo Veltri ci rende partecipi di questa intervista a Franco Ambrogio, dirigente comunista di primo piano negli anni ’60 e ’70

Chi meglio di Franco Ambrogio può parlare della DC e del rapporto con il PCI, che gli articoli apparsi nelle settimane passate hanno acceso nel dibattito pubblico e privato di una politica calabrese spenta come non mai? Dirigente comunista di primo piano ebbe rapporti con gli alti gradi della Democrazia Cristiana degli anni ’60 e poi ’70, ruppe con la solidarietà nazionale e ora non si accontenta di lavorare ad una storia del suo partito di prossima pubblicazione ma va in giro per la Calabria a convegni e presentazioni di libri su quei momenti. Lo becchiamo proprio di ritorno da Spezzano Albanese dove è andato a presiedere un dibattito assieme a Damiano Tursi, che di quel paese e di quel partito è stato anch’egli primo attore.

  Allora, Ambrogio: vorrei capire da chi è stato un alto dirigente del Pci il giudizio sulla DC e se condividi o meno quello che ho scritto sul tema e anche le successive repliche?

  • La DC, in sintesi, è stata un grande partito, espressione dell’unità politica dei cattolici, con diverse componenti e sensibilità politiche e culturali, da quella popolare a quella conservatrice, dal cattolicesimo democratico a gruppi con pulsioni reazionarie. Queste forze erano tenute insieme dalla necessità di esprimere un governo che contribuisse a mantenere l’equilibrio fra i due blocchi internazionali formatisi dopo la Seconda guerra mondiale, mantenendo l’Italia nel campo occidentale. Nella contrapposizione al Partito Comunista, De Gasperi arginò le tendenze presenti anche all’interno del suo partito, ad affrontare con una soluzione autoritaria la “questione” comunista, mantenendo il confronto, in alcuni momenti drammatico, sul terreno democratico e trovò nelle scelte essenziali compiute da Togliatti la rispondenza nell’affermazione del sistema democratico secondo i principi della Costituzione repubblicana. Una simile rispondenza, seppure con serie contraddizioni e sacrifici, permise anche la modernizzazione del paese e la crescita del suo potenziale economico. Nel tempo, in mancanza di un’alternanza nel governo del paese, la DC divenne un partito-Stato, che utilizzava gli apparati dello Stato e degli enti statali e, nel contempo ne era condizionata.
  • Rifacciamo un po’ di storia più o meno recente?

In Calabria, alla caduta del fascismo, la DC fu fondata e organizzata dalla Chiesa e dai vecchi esponenti del partito popolare di don Sturzo. Con la rottura dei governi di unità nazione e le elezioni del 1948, quando la DC conquistò la maggioranza assoluta, il partito cattolico divenne anche il partito dei ceti dirigenti e assorbì buona parte del notabilato, seppure in una cornice non di riproposizione del tradizionale immobilismo. Dei gruppi dirigenti locali assimilò anche una loro caratteristica essenziale: il municipalismo.  Nel Mezzogiorno e in Calabria, con la politica dell’intervento straordinario, l’Opera Sila, la Legge Speciale per la Calabria si crea un diverso rapporto fra Stato ed economia e Stato e società.  La spesa pubblica diviene l’elemento decisivo nella dinamica sociale, oltre che nella trasformazione dell’economia. Nel 1954 Fanfani sosteneva che l’obbiettivo era quello di creare un nuovo ceto medio nel Mezzogiorno; In realtà, ciò che andava emergendo, in particolare in Calabria, era un ceto medio non produttivo, che dipendeva dalla spesa pubblica, e un ceto medio gestore di un terziario dequalificato.  La riflessione critica, dopo quasi dieci anni di attività della Cassa del Mezzogiorno, porta allo spostamento della centralità dell’intervento straordinario dalle infrastrutture all’industrializzazione. Nel 1963-’64 le Partecipazioni Statali avviano un piano per la crescita dell’apparato industriale e il governo approva degli indirizzi di programma di industrializzazione nel Mezzogiorno da cui la Calabria rimane esclusa. Anche con i governi di centro-sinistra, negli anni Sessanta, non si riescono a correggere le anomalie strutturali della regione, che, anzi, tenendo presenti i mutamenti avvenuti nel resto del Mezzogiorno, si accentuano.  Dalla fine degli anni Settanta, diminuiscono gli investimenti nella spesa pubblica e crescono i trasferimenti diretti alle persone e alle famiglie. La “dipendenza” rimarca ancora di più il ruolo della spesa pubblica come strumento regolatore del consenso politico ed elettorale.  Tutto ciò non poteva non avere conseguenze sul modo di fare politica dei partiti di governo e, in particolare della DC. Emergono, infatti, nuovi modi di mediazione sociale e politica e i gruppi politici e burocratici che gestiscono direttamente la spesa pubblica acquisiscono un peso determinante nella DC. Infatti, cambia l’estrazione professionale e culturale del personale politico e della rappresentanza istituzionale.

La DC era, dunque, l’architrave del sistema di potere che con la spesa pubblica regolava la vita sociale e raccoglieva il consenso; un sistema di potere frutto di scelte politiche esterne e interne alla Calabria. Da ciò non bisogna ricavare la conclusione che la DC era solo un partito di clientele, in quanto parte integrante della sua tenuta rimanevano l’ispirazione cattolica e il carattere popolare, non riducibile, ripeto, a rapporti clientelari. Mi guarderei, quindi, da una interpretazione superficiale e schematica, ma coglierei tutta l’articolazione della storia del partito cattolico che è stato, in ogni caso, dal dopoguerra in poi, uno dei soggetti -l’altro è stato il PCI-che hanno cambiato la vita politica e democratica del mezzogiorno e l’hanno unificata col resto del paese.

 

– La DC con la quale tu hai collaborato che partito era? Risposta diversa della prima perché’ più riferita a un tempo certo-

 – Il PCI è stato il Partito dell’opposizione nei decenni della cosiddetta prima repubblica. Un’opposizione sociale e politica che ha interpretato una domanda di radicale cambiamento negli assetti della società e dello Stato a favore delle classi lavoratrici e popolari. La forza del PCI si spiega con l’avere esso assolto ad una funzione nazionale nel momento cruciale della guerra, che venne alimentata, nonostante il persistere dei legami internazionali, con un’opposizione che portava quelle istanze di radicale cambiamento sul terreno democratico. Opposizione non fine a se stessa, ma con una visione di governo e l’ambizione di ottenere risultati positivi. Nei tre anni della politica di solidarietà nazionale, il PCI ha cercato di portare a compimento la sua funzione nazionale e di contribuire al maturare della possibilità dell’alternanza nel governo del paese. Tentativo, è noto, stroncato dall’uccisione di Moro. Naturalmente anche la vita e l’azione del PCI non sono state prive di errori, incoerenze, condizionamenti, palesi contraddizioni. Per andare più specificatamente alla domanda, nelle Regioni meridionali, dopo le elezioni del 1975, nel quadro della politica berligueriana del compromesso storico, si dette vita alle “larghe intese” fra la DC, gli altri partiti di governo, fra cui un riluttante partito socialista, e il PCI, basate su programmi contenenti delle indubbie indicazioni di politiche di discontinuità con gli indirizzi tradizionali di governo. Si formarono maggioranze, sulla base di astensione o di voto favorevole, comprensive del PCI, ma senza la sua partecipazione alle giunte. In Calabria si giunse alle “larghe intese” con un certo ritardo rispetto alle altre regioni, e ci si accordò su un programma molto articolato e concreto che, se realizzato, poteva segnare un’inversione di rotta, e su un meccanismo di partecipazione del consiglio regionale, quindi dei comunisti, alle principali decisioni di governo. La mancanza di una effettiva volontà da parte della DC ad attuare il programma portò, nell’arco di tre anni, alla formazione e alla crisi tre giunte. In sostanza dopo pochi mesi dalla nascita di una giunta, noi ritiravamo l’appoggio. Le resistenze ad un effettivo cambiamento erano fortissime. Era impossibile continuare su quella strada e quel tentativo si esaurì rapidamente. Si era, già, nella fase declinante della politica dell’intervento straordinario; quella per capirci in cui Saraceno riconobbe che il divario col Nord non era diminuito e confessò il dubbio che questo obiettivo potesse raggiungersi. La DC usciva dal trauma devastante dei fatti di Reggio C.. Aveva perduto Antonio Guarasci, un intellettuale fuori dalla tipologia dei notabili e dalle rigide appartenenze alle famiglie, che da presidente della Regione aveva tenuto i fili di un rapporto unitario fra le forze democratiche consentendo, così, al nuovo istituto di nascere e di muovere i primi passi e mostrando al paese il volto e un modo di agire di un democratico -cristiano meridionale certamente diverso dal consueto. Guarasci era divenuto il presidente più autorevole del Mezzogiorno e prese iniziative importanti di coordinamento fra le regioni meridionali e intesse una collaborazione proficua con alcune regioni del Nord. Venuto meno Guarasci mancava a gran parte di quel personale politico una capacità di visione, una lungimiranza, tutto concentrato, com’era, sulla linea di piegare il nuovo istituto regionale al sistema di potere costruito precedentemente, come, poi, effettivamente avvenne. Temeva anche limitate misure portatrici di novità (si potrebbero fare numerosi esempi) perché potevano squilibrare quel si sistema e le porzioni di potere che i vari gruppi detenevano. Aveva pensato di “accontentare “ il PCI con una declamazione di facciata senza modificare effettivamente nulla, ma l’operazione non era riuscita e ritornò ad uno schema di governo  in cui competere col PSI sulla stesso terreno.

Perché’ la politica di oggi è così immemore rispetto al suo passato?

  • Ma non è solo la politica. Lo spartiacque dei primi anni Novanta, che vide esplodere ciò che era maturato negli anni Ottanta, aveva portato a considerare azzerata la storia. Poi, abbiamo visto, con sorpresa dei cantori del pensiero unico, emergere vecchie e nuove contraddizioni, lacerazioni, contrapposizioni di interessi di classi e di Stati, violenze e perfino la riproposizione di antichi fenomeni. In verità, tanto immemore una parte della politica, oggi, a ben guardare non è se al governo c’è un partito post-fascista più che tradizionale e una premier che da giovane attaccava i manifesti. Sono altri che hanno perduto la memoria, che non deve essere nostalgia, perché così non serve a nulla se non a trastullarsi nel ricordo della propria gioventù. Certamente, la Calabria di oggi non è figlia di nessuno. In questo nessuno non c’è solo la DC. La strategia comunista che puntava, con elaborazioni, azione politica e movimenti di lotta ad una Calabria produttiva è stata sconfitta. Abbiamo, oggi, una realtà che sopravvive sempre peggio, con fenomeni negativi che sono diventati strutturali come l’emigrazione dei giovani e con isole di potenziale positività che non ricevono l’attenzione dovuta per farle diventare sistema.AL posto della nostalgia servono, allora, la conoscenza, la consapevolezza delle scelte, delle contraddizioni, della complessità anche guardando al passato, per sapere meglio interpretare il presente e cercare, nelle difficoltà, di trovare le risposte adeguate.

 

La sinistra sembra anche lei piegata a questa logica e priva di memoria.

-L’errore è stato quello di pensare che bisognava mettere da parte la peculiarità della sinistra italiana, come hanno sempre sostenuto coloro che non si sa in base a quale complotto della storia non sono riusciti a crearla una sinistra come a loro piaceva. Naturalmente, estraendo da quella peculiarità tutto ciò che di positivo aveva mostrato nel corso di 45 anni e lasciando cadere le zavorre. L’avere voluto, invece, ricercare, volta a volta, modelli diversi; l’avere ceduto al “pensiero unico” nella considerazione degli interessi sociali e del loro inevitabile conflitto, ha portato a perdere l’anima. L’avere assunto il ruolo di sentinella dell’ortodossia di una visione delle relazioni internazionali, che avrebbe fatto inorridire Moro e Andreotti, per citare qualcuno, ha portato all’esplosione del populismo, con diverse bandiere. L’avere regalato il nord alla Lega, inseguendola nei suoi propositi e perdendo di vista i vecchi e i nuovi conflitti e una visione complessiva del paese, ha portato a non rappresentarne adeguatamente la parte più produttiva, come una grande forza nazionale deve fare. Nel Mezzogiorno, la crisi della sinistra, la scomparsa dei partiti, come soggetti di vita e azione politica   collettiva, con l’inevitabile conseguenza della ricomparsa della centralità della figura politica individuale, hanno prodotto l’omologazione dell’offerta politica, il venir meno di punti di riferimento alternativi, l’impoverimento del confronto politico, il restringimento della partecipazione popolare, di cui il crollo verticale dell’esercizio del diritto di voto è la manifestazione più evidente,  e la riduzione della vita politica e istituzionale ad un circolo ristretto e misero.

Se e come sia possibile avviare un percorso di modifica di questa situazione è un interrogativo a cui non è facile rispondere con serietà. In particolare, in una condizione come quella della nostra regione, dominata dall’assistenzialismo e con la perdita costante delle migliori energie giovanili, le difficoltà sono enormi. Ciò che va sottolineato, però, è la mancanza di un vero tentativo in questa direzione sia dal punto di vista della lettura attenta dell’economia e della società e della elaborazione di una proposta culturalmente e politicamente in sintonia; sia dal punto di vista della ripresa di una presenza significativa di organizzazioni politiche e sociali che riempiano il vuoto oggi esistente. Ovviamente, nelle forme adeguate a questi tempi. Senza di ciò, anche i possibili successi elettorali rischiano, come l’esperienza dimostra, di non dare i risultati sperati.

Cosa ci aspetta, secondo te, nel panorama politico nazionale e calabrese?

Esiste una domanda inevasa di politica? Qualcuno sostiene di sì altri ritengono illusoria una simile risposta. Ritengo che non sapremo quale sia la realtà effettiva se non si prova, si sperimenta, se non si inizia a parlare con singoli, con gruppi, con comunità, confrontandosi, correggendo, ponendo apertamente il problema di volere trovare insieme una soluzione. Tutto ciò accendendo contemporaneamente il fuoco di una lotta politica concreta sulla insopportabile negazione degli essenziali diritti sociali e civili, non in maniera episodica o peggio propagandisticamente, ma in modo tale da creare un  “problema” a chi questi diritti nega. Si può provare? Spero che qualcuno lo faccia.

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