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La ribellione delle montagne nello scritto di Mario La Cava

Reportage sull’alluvione di 70 anni fa dello scrittore bovalinese Mario La Cava

27 ottobre 1951. Il maltempo, incominciato il 15 ottobre 1951, mi sorprese a Bovalino, dovevo partire per Roma. Decisi di rimandare il viaggio e quello che accadde dopo, difficilmente lo avrei potuto immaginare. Bovalino a un certo punto restò isolato dal resto del mondo: senza luce, senza acqua, senza comunicazione di alcun genere. Varie casette di campagna e della frazione di sopra, crollate, una donna schiacciata dalle macerie. I campi danneggiati per l’alluvione e per il vento. Pensavo a quel giovanotto spensierato, rimasto fulminato nella sua casa, mentre suonava la chitarra, durante un acquazzone di qualche giorno prima: e intanto, in una sosta di questo temporale, due bambini perdono la vita, giocando con una bomba di guerra, dissepolta dalla furia delle acque e portata innanzi alla loro casa tra i campi. Tuttavia questo non era niente: quello che accadde a Platì e a Natile (tanto per dare un esempio), dove diverse diecine di persone furono sepolte dalle frane che le sorpresero in montagna! Sfuggì loro la terra sotto i piedi, pensate! Greggi di pecore, mandrie di vacche perdute! I paesi di Platì e di Natile sotto una minaccia costante. Platì, per giunta, fu invasa dalle acque del torrente Careri (quello stesso che distrusse a Bovalino il grandioso ponte stradale) e per un vasto settore distrutta.

Vennero le prime notizie e sembrarono fantastiche: io non ci credevo. E invece, quando potei andare a Platì, mi accorsi che niente era stato esagerato.si tratta di un grosso paese alle sorgenti del torrente Careri, sui fianchi dell’Aspromonte orientale, famoso per le liti dei suoi abitanti, nonché per l’ingegno brillante e spregiudicato che li distingue. E se non è conosciuta per un altro suo aspetto, non comune tra le popolazioni meridionali, cioè per il sentimento di solidarietà che stringe talora in un vincolo di aiuto reciproco i suoi cittadini, io lo voglio dire, perché è vero. Platì ricostruì la sua chiesa dopo la guerra, in segno di grazie alla Madonna per la protezione che le aveva accordata, soltanto con l’obolo e le prestazioni dei suoi fedeli. Volle la luce elettrica, costruendo un impianto locale di sfruttamento dell’energia idrica, e l’ottenne, con il lavoro spesso non ricompensato dei suoi braccianti. E ora la centrale è scomparsa sotto la frana!

Il paese è povero, è molto povero; e quelli che son riusciti ad emigrare, richiamarono e richiamano nelle contrade ricche tanti di quei parenti e amici, quanto non è accaduto ugualmente per gli altri paesi. E ora, in occasione dell’interruzione stradale, squadre volontarie di duecento operai al giorno, per cinque giorni consecutivi, si formarono, affinchè qualche passaggio fosse aperto per il trasporto di vivere e di persone. Cercarono arginare il torrente, fecero quello che hanno potuto durante il flagello. Certo un paese tanto sventurato avrebbe meritato la visita di qualche personaggio ufficiale, per conforto e aiuto. Purtroppo le circostanze crudeli delle comunicazioni interrotte impedirono a Einaudi di visitare proprio i luoghi più duramente colpiti, specie nel circondario di Locri. Ma non fa niente. Non per questo le autorità ignoreranno quali sono le condizioni reali delle zone più devastate. Piuttosto il rimedio non è facile né di immediato successo. Non si tratta infatti di danni occasionali provocati dall’eccesso delle acque piovane. E’ ben altro. Si patisce oggi in tutta la Calabria delle conseguenze disastrose di un’errata e imprevidente politica forestale che dalla guerra del ’15 ad oggi non ha fatto, in varia misura, che sgretolare quelle montagne, sulle cui pendici vivono tanti suoi figli. Le montagne sono nude, e su di esse c’è chi coltiva miseramente la terra, chi porta al pascolo le sue bestie affamate! Si aggiunga che è mancato alle popolazioni calabre il senso religioso dei boschi e delle sue solitudini. Pan non è il loro dio, e qui non è affatto pensabile che potesse sorgere fantasia di architetto che dai rami intrecciati deducesse l’arco a sesto acuto del gotico. Ho visto io, purtroppo, con i miei occhi, aberranti sevizie contro gli alberi dei boschi, senza scopo e senza misura. Passavano pastori e loro divertimento era percuotere colla scure lanciata al bersaglio i giovani alberi, fino al punto di recidere i tronchi. Altri erano capaci di non curarsi delle conseguenze dei fuochi che accendevano.

Gli uomini sono stati così e la montagna si è ribellata. E purtroppo non è da pensare che negli anni venturi essa non faccia sentire la sua presenza terrificante di gigante in movimento. A lungo si dovrebbe trattare in Parlamento dei rimedi più sicuri da adottare, per i quali la cooperazione internazionale non dovrebbe essere considerata fuor di proposito. E intanto la povera gente soffre di quanto le è accaduto. Lasciamo andare chi ha perduto milioni a diecine, in una sola notte di terrore. Il governo deve pensare certamente anche a loro, poiché il danno è di tutti, si capisce bene. Ma consideriamo chi aveva una casetta e oggi non ce l’ha più, chi aveva un fondarello e oggi non ci sono che sassi!

Sono stato a Platì, in un viaggio fortunoso, con una macchina guasta che alla fine ha ceduto, e ho visto il paese in silenzio. La gente era nei campi, là dove continuava il pericolo, per cercare di porre qualche rimedio ai danni subiti. Pochi operai, uomini e donne, lavoravano a sgomberare le strade piene di detriti lasciati dal torrente fino al primo piano delle case. Si aspettava l’arrivo dei camions da Bovalino, con i viveri per la popolazione affamata. Là dove erano campi alberati, non c’erano che i sassi del torrente che aveva mutato letto e ora s’era ritirato, pur non mancando col suo fragore di ricordare la sua minacciosa presenza. Le montagne addosso al paese mostravano larghi squarci, quegli squarci dove tanta gente era perita. Vidi un signore in lutto indugiare nelle strade, ed era uno che aveva perduto nella notte il suo podere e un figlio che, ammalato, non aveva potuto essere portato all’ospedale. Seppi di altre situazioni strazianti, di una donna che aveva perduto quattro dei suoi figli, mentre la nuora gravida era stata salvata con le gambe spezzate. Nemmeno il cimitero stette in pace, e molti cadaveri si videro galleggiare con le loro casse di zinco sul dorso tempestoso delle acque.

Paese infelice, sì, come molti altri sulle pendici dei monti calabri. Noi saremmo partiti, la triste visione sarebbe scomparsa dai nostri occhi. Ma quelli che sarebbero rimasti, aggrappati ai loro monti infidi, che nascondono la morte, sotto lo splendore delle loro groppe e delle loro valli? Che cuore debbono fare, come possono sopportare la vita? Come non diventare strenui nella resistenza, decisi a tutto, capaci di tutto? A domani la risposta che, anche per questo aspetto, la storia d’Italia darà del suo svolgimento tempestoso.

                                                                                                      Mario La Cava

Scrittore 

Ripubblichiamo su autorizzazione della famiglia La Cava

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