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domenica, Maggio 5, 2024
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La rivolta dei bambini

Mario Alberti riflette e ci fa riflettere sulla morte del bambino ritrovato a Reggio Calabria in seguito ad un naufragio e su cosa voglia dire compiere la scelta estrema di fuggire verso una nuova vita.

Mario Alberti

C’è una bellissima pagina di Dostoevskij, tratta dai Fratelli Karamazov, dove viene messa in discussione la sofferenza come passaggio obbligato verso l’armonia, in particolare per ciò che riguarda la sofferenza dei bambini.

Cosa c’entrano i bambini in tutto questo?

“Questa è una rivolta, disse Aljòsa piano, con gli occhi a terra”.

Ed è proprio con una rivolta inizia il mio pezzo, perché la morte di un bambino non può che non provocare rivolta, ribellione, lacerazione.

Premessa.

Le migrazioni dei popoli che vivono nella parte lacerata del Mondo avvengono senza sosta, ed è naturale sia così. Chi sta male cerca sempre di migliorare la propria condizione, anche rischiando la vita propria e dei propri cari. Non ha alternative, o fa così, o quasi certamente morirà. Alla certezza di morire di fame, per mano militare, o per mano di banditi, che sovente sono la stessa cosa, oppone il rischio di morire in mare. Se va bene, si aprono delle speranze. Se va male, si muore.

Alla certezza si oppone una speranza. Quindi vale la pena correre il rischio. Partendo da questa considerazione, sicuramente soggettiva, si può raccontare l’ennesimo fatto atroce.

Reggio Calabria, giovedì tredici luglio, sbarca con la madre un bambino morto.

Una Madonna sub sahariana con Gesù bambino morto ancor prima di vedere la croce.

Morto in mare a seguito di un naufragio nel Mediterraneo neanche riportato dalla cronaca.

Ci stiamo abituando alla morte innaturale.

Si, perché non è naturale morire a quattro anni, e soprattutto morire per poter vivere.

Gli accordi tra Nazioni non vengono prevalentemente orientati dalla necessità di garantire una vita giusta ad ogni essere umano che vive su questa Terra, bensì per impedire che avvengano le partenze verso l’occidente. Non ci si chiede qual è l’alternativa alle partenze.

Che vita e che morte attende chi resta. Si difendono i confini assaltati da un esercito di disperati. E mai quanto adesso il concetto di confine nazionale, rafforzato dall’ondata di estrema destra in molte nazioni europee, compresa l’Italia, si rivela mortifero.

Tutti sappiamo bene che è impossibile regolamentare i flussi delle persone disperate. La disperazione non si adatta ai criteri. È frutto della paura, della fame, delle violenze sessuali, dei colpi di machete. La disperazione se ne fotte del concetto di migrante economico o profugo di guerra.

Si muore uguale, di fame o di pistola. E tutti sappiamo benissimo che l’unico modo per risolvere il problema dei trafficanti di esseri umani non è impedire le partenze, ma legalizzarle totalmente. E se l’Europa diventa Africa, che volete che cambi? Che volete che conti tutta questa fuffa sull’identità nazionale di fronte alla morte di un bambino di quattro anni?

Si, morte di uno solo.

Basta una vita interrotta per sconvolgere ogni paradigma. Non ho altro da aggiungere se non una convinzione. Se vogliamo veramente mettere un freno allo sfruttamento dell’immigrazione agito attraverso i trafficanti, e l’ho già detto ma lo ribadisco, non vi è altra soluzione che liberalizzare la stessa immigrazione. Prendere atto una volta per tutte che una parte di mondo muore, e consentire ad ognuno di essere cittadino ovunque, da qualsiasi parte possa avere una opportunità di vita migliore.

O semplicemente la possibilità di non morire.

Altro non è, questo, che il concetto di fratellanza tra popoli, predicato ma non applicato, a volte dalle stesse persone che lo predicano.

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