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L’orologio e il mugnaio: la storia di Rocco Gatto

Bruno Gemelli ci narra di di Rocco Gatto, impavido cittadino che si oppose alle angherie mafiose finendo per pagarne lo scotto con la vita nella Gioiosa Ionica di fine anni Settanta.

Bruno Gemelli

Come sempre, quando deve fare il giro dei clienti per portare loro la farina commissionata, Rocco Gatto prepara il furgone all’alba. Sabato 12 marzo 1977 mette in ordine i sacchi destinati ai contadini della zona, prende con sé la doppietta e la cartucciera del cacciatore, e parte dal mulino a cilindri di via Gramsci per le varie destinazioni programmate. Rocco è solo. Si mette alla guida del furgone Fiat 241. Il percorso di lavoro prevede il transito di tutte le contrade “calde” della zona, ovvero, le località Cassarè, Ceravolo, Ligonia, Furno, Prisdarello. Tenete in mente Cessarè perché è lì che ha inizio questa storia. Dunque, il viaggio di lavoro di Rocco è un passaggio obbligato nel regno della ‘ndrangheta campestre, usa all’abigeato, all’invasione fraudolenta delle proprietà altrui, ai danneggiamenti come arma di pressione per indurre i proprietari a pagare il pizzo, dedita alle “semplici” invasioni letali per dimostrare chi è che comanda da quelle parti.

Rocco transita da contrada Armo, sulla provinciale Gioiosa Jonica-Roccella Jonica, alle 6,30. Sul breve rettilineo che immette in una curva, avviene l’agguato mortale. Da un cespuglio una rosa micidiale di lupara investe sul fianco sinistra il mugnaio di Gioiosa. Rocco riesce a controllare il mezzo per una sessantina di metri. Poi, morente, crolla tra le braccia di due contadini che, al rumore degli spari, accorsero subito aprendo lo sportello del furgone per tentare di aiutare il ferito. I soccorritori diedero l’allarme e subito arrivarono i Carabinieri.

Perché Rocco Gatto fu ucciso? Perché odiava le ingiustizie e fece una serie di cose che non doveva fare. Denunciò a lungo, nei giorni e nei mesi che precedettero l’esecuzione, le angherie mafiose, arrivano a rifiutarsi di pagare il pizzo alle ‘ndrine locali e, cosa gravissima per quell’ambiente, iniziò a collaborare con la giustizia. Un infame sentenziò la ‘ndrangheta. Rocco ha 51 anni quando viene ucciso. Egli è il primo di dieci figli. Una vita difficile la sua. Deve badare a sé stesso ma anche ai fratelli e alle sorelle. Le precarie condizioni economiche del padre, Pasquale, gli impediscono di andare oltre la quinta elementare. Ma Rocco si rivelerà un diligente autodidatta. Sveglio, curioso, diligente. Inizia a lavorare all’età di 11 anni aiutando il padre nel mulino di Pirgo di Grotteria, poi lavora come dipendente in un altro opificio, alla fine, dopo tanti sacrifici, riesce a realizzarne uno tutto suo. Rocco ha una passione: quella di riparare orologi. Una dote che richiede pazienza e precisione, sicché, all’interno del mulino, tiene un piccolo laboratorio per la riparazione degli orologi. Rocco Gatto è un comunista. Iscritto al Pci, proprio come il padre, Pasquale Gatto.

Il carattere di Rocco, poco incline a subire le sopraffazioni malavitose, si declina in diverse situazioni. Non tace, non gira la testa dall’altra parte e, se sollecitato, dice la sua, costi quel che costi. Perché l’uomo è fatto così. Ha un alto senso civico per i diritti e per i doveri. Un anno prima di morire Rocco dà un saggio della sua tempra di cittadino modello. È l’11 gennaio 1976 quando nella sala del ristorante Reale di Gioiosa Jonica si tiene un pubblico dibattito sul tema della mafia. È questo solo fatto è una cosa enorme. Infatti, Gioiosa Jonica sarà all’avanguardia per avere avuto dentro il suo ventre gli opposti, una mafia fastidiosa come una zanzara e un’antimafia dinamica. È in questo grosso centro della Locride che nasce il primo sciopero contro la ‘ndrangheta, dove è eletto il primo sindaco antimafia della Calabria, dove si sviluppa un dialogo sociale attraverso l’azione di un sacerdote che poi sarà espulso dalla Chiesa ufficiale. In quel microcosmo Rocco è la punta di diamante di una più complessiva presa di coscienza.

Nella sala del ristorante Reale è presente una troupe televisiva guidata dal giornalista Fernando Cancedda. Sono intervistati gli amministratori del comune e semplici cittadini; tra questi Rocco Gatto, il quale dichiara che non ha paura della mafia e che mai pagherà “mazzette”. Si condensa nel dibattito un’avversione al clima opprimente che la mafia del luogo esercita quotidianamente sull’intera comunità. La televisione trasmette il servizio alle 20,40 del 23 gennaio dello stesso anno. L’impressione nel paese è grande. Si chiedono in molti: forse si è parlato troppo? Si è parlato quanto basta perché per indispettire le ‘ndrine locali. Tutti gli autori della “bravata” televisiva sono marchiati col timbro dell’infamia. I più audaci ricevono, pronta cassa, segnali di minacce.

Facendo un passo indietro di due anni occorre anche ricordare il 26 dicembre 1974 una bomba rudimentale fu fatta esplodere nel mulino della famiglia Gatto provocando un principio d’incendio.

A questo punto occorre svelare Cessarè. Il nome “Cessarè” deriva dal greco Kìssaros, cisto. Quindi: “luogo dei cisti”. Il cisto, come recita il Devoto & Oli, è “una pianta arborescente con foglie intere e fiori larghi, bianchi e rosei, che ricordano quelli delle rose selvatiche”. “Cessaré” è anche il nome di una contrada di Gioiosa Jonica. A “Cessaré” Rocco Gatto possedeva una piccola casa colonica presa a bersaglio dai danneggiamenti mafiosi.  “Cessaré”, infine, è il titolo di un saggio che il sottoscritto e il collega Pietro Melia abbiamo scritto nel 1979 e che è stato ristampato dall’editore Ursini di Catanzaro. Un saggio ignorato dall’ambiente comunista del tempo perché non era stato partorito dal loro giro culturale. Il libro racconta la storia del mugnaio Rocco Gatto. Un omicidio che fece da spartiacque nella storia ancora incompleta della mafia calabrese.

Cessarè è, in sostanza, il paradigma delle scorrerie mafiose non ancora industrializzate e internazionalizzate. È l’ultimo miglio della mafia rurale. Quelle consorterie locali che, come gli unni, distruggono tutto quello che hanno sotto gli occhi. La ridente collina, quella campagna virtuosa e odorosa, agli occhi dei mafiosi è, nell’ordine, pascolo abusivo, taglieggiamento, rifugio per i latitanti, guardianie a pagamento. Proprio perché è una zona amena deve essere vietata alle persone per bene. Come reagirono i proprietari dei terreni ubicati in contrada Cessarè alle continue vessazioni? I più pagarono e stettero zitti. Ma ci furono pure denunce collettive. Una sorta di class action avanti lettera.

Il raid del mercato…

Se Cessarè rappresentò l’inizio di questa storia, il raid del mercato domenicale di Gioiosa Jonica fu la miccia che provocò l’intero incendio. Protagonista coraggioso fu, ancora una volta, Rocco Gatto.  Questo l’antefatto. Il 6 novembre 1976 i Carabinieri catturano in località Condarcuri di Gioiosa il latitante Giuseppe Gallizzi. Mezz’ora dopo, nel corso della medesima perlustrazione, i militari dell’Arma, durante un conflitto a fuoco, sparano e uccidono Vincenzo Ursini, capo dell’omonimo clan di Cessarè, ricercato anch’egli perché scappato dal confino di polizia. La morte di Ursini getta nello scompiglio la famiglia e tutta la cosca di Gioiosa Jonica. Il funerale, per il giorno dopo, la ‘ndrangheta lo immagina solenne, degno di un grande boss caduto in combattimento. È anche un monito perverso per tutta la popolazione che è “obbligata” a rendere omaggio a un capo clan. Il giorno dopo è domenica e a Gioiosa Jonica si svolge un grande mercato zonale, frequentato da tutto il comprensorio Locrese. Il mercato della Valla del Torbido si anima già alle 7 del mattino per accogliere i “gnuri” che vengono da fuori. Si trovano spezie e primizie che non ci sono da nessuna parte. La domenica del mercato lavora anche, a pieno ritmo, il mulino dei Gatto che si affaccia da un vicoletto della piazza.

Sembra tutto normale. Ma la domenica 7 novembre 1976 è una giornata particolare perché c’è da onorare la memoria di Vincenzo Ursini. La cui famiglia decide che il miglior modo per celebrare la figura del congiunto sia quella di chiudere militarmente il mercato. Chiuso per lutto. Con un’azione di forza. È ancora buio quando un gruppo di uomini del clan interessato all’evento prende posizione nei punti strategici nell’area mercatale. Sicché gli uomini del clan si posizionano nei punti di accesso al paese. Al Trivio per quelli che vengono dalla Marina, a Sant’Antonio per quello che vengono da Mammola e Grotteria, alle case popolari per chi scende da Martone, vicino al mercato per chi arriva da Prisdarello. Gli ambulanti e i commerciati sono “invitati” a tornare indietro. L’operazione dei banditi è completata con un giro in piazza: anche per quelli del luogo vale la regola del “tutti a casa”. In piazza c’è già gente, la quale vede, sente, “colloquia” con i banditi. Al processo nessuno vedrà, sentirà, colloquierà.

Tutti ciechi, sordi e muti. Tranne Rocco Gatto. Sempre lui. Il nemico numero uno della mafia. Rocco, senza saperlo o forse sapendolo bene, si infila in una strada senza ritorno. Egli colleziona punti per la sua condanna a morte da parte della ‘ndrangheta. Ancora un’azione di estremo coraggio da parte del valoroso mugnaio. È troppo chiamarlo eroe? È troppo definirlo martire? Sicuramente non è un incosciente. È uomo per bene. Nel senso più alto del termine.

La notizia del mercato chiuso violentemente per lutto mafioso allarma il Viminale che manda a Gioiosa Jonica l’XI battaglione mobile dei Carabinieri proveniente da Bari che si sistema in un edificio sfitto all’ingresso della città. Nel frattempo, lievitavano i sequestri di persona, sicché quasi tutti gli alberghi della Locride furono requisiti dalle forze speciali di Carabinieri e Polizia di Stato.  Gli unici turisti erano gli uomini in divisa. Una guerra non dichiarata che durerà a lungo. Una guerra persa dallo Stato e vinta dalla ‘ndrangheta. Tanto per essere chiari.

Il 16 settembre 1978 la Corte di Cassazione trasferisce gli atti processuali a Catanzaro. L’ennesimo caso di “legittima suspicione”.

Ma ci sono altri di protagonisti di questa storia.

Il capitano dei carabinieri Gennaro Niglio, il prete sospeso a divinis dal vescovo di Locri, Natale Bianchi, il sindaco comunista Francesco Modafferi, il padre di Rocco, Pasquale Gatto, che ricevette la medaglia d’oro dal presidente Pertini.

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