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mercoledì, Maggio 8, 2024
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Reggio Calabria, il carcere è una polveriera pronta a scoppiare

Da anni l’avvocato Gianpaolo Catanzariti, consigliere della Camera penale “Gaetano Sardiello” di Reggio Calabria, si batte con determinazione e perseveranza per migliorare la vita delle persone detenute. Un impegno che la scorsa settimana gli è valso la prestigiosa nomina a responsabile nazionale dell’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali Italiane, uno strumento fondamentale per monitorare lo stato dei diversi istituti penitenziari del nostro Paese, con facoltà di definizione delle linee di intervento politico e di proposta in sede legislativa per l’ordinamento penitenziario.

Una delle attività principali dell’Osservatorio sono le visite nelle carceri al fine di rilevare le situazioni più degradanti per la dignità dei detenuti. A parte il sovraffollamento, quali sono le problematiche urgenti che non riescono a trovare spazio sui giornali?

L’elenco rischia di essere lungo e rendere il quadro a tinte ancora più fosche. Le ferite aperte degli istituti penitenziari non possono in ogni caso essere disancorate dal sovraffollamento. Tutte assieme rendono il carcere una polveriera pronta a scoppiare. Le recenti rivolte di Sanremo, Busto Arsizio, Lucca e Trento costituiscono una drammatica conferma.

Certamente, tra i problemi più rilevanti possiamo annoverare la tutela del diritto alla salute dei detenuti. Secondo gli ultimi dati statistici rilevati, sono almeno 77 i morti in carcere per ragioni di salute con casi attenzionati anche dalla magistratura inquirente. La grave carenza di personale in grado di favorire l’attività rieducativa dei detenuti. Gli educatori, infatti, sono solo il 2,17% di tutto il personale penitenziario.

L’altro nervo scoperto, poi, è rappresentato dagli ostacoli, a volte insormontabili, al mantenimento dell’affettività. Sappiamo per certo che una completa ed effettiva rieducazione del detenuto passa soprattutto dalla necessità di mantenere, rafforzare e ricostruire, su nuove basi, il rapporto con i propri familiari e con il contesto sociale in cui si è vissuto e ha realizzato una sua identità. Purtroppo, specie nelle regioni meridionali, assistiamo a moderne “deportazioni” verso gli istituti penitenziari dell’estremo nord. Una pena aggiuntiva alla pena detentiva.

Rispetto alla media nazionale, le carceri calabresi come si pongono?

La Calabria appare perfettamente allineata con il resto del Paese. Sempre in negativo. Almeno 7 su 12 ovvero poco più della metà degli istituti penitenziari calabresi presentano un tasso di sovraffollamento che oscilla tra il 137,62% di Reggio-Panzera e il 107,22% di Rossano. E gli altri probabilmente non lo sono almeno per ragioni di interventi di ristrutturazioni edilizie che le rendono parzialmente utilizzate. Teniamo comunque conto che i dati ufficiali sul sovraffollamento sono in realtà sottostimati in quanto tarati sui posti-letto regolamentari e non certo su quelli realmente disponibili. Analogamente per le altre problematiche di cui abbiamo parlato. Basti pensare che gli educatori in Calabria sono un terzo in meno di quelli previsti in pianta organica. Ma lo stesso si potrebbe dire sul personale di polizia penitenziaria se non addirittura sul numero di magistrati di sorveglianza.

Nel contratto per il “governo del cambiamento” si prova a rispondere al problema del sovraffollamento degli istituti penitenziari con un piano per l’edilizia penitenziaria. È questa la soluzione per contrastare il trend di crescita della popolazione carceraria?

Proporre la costruzione di nuove carceri quale soluzione al sovraffollamento e ai crescenti suicidi è un atto di inaudita ipocrisia oltre che di grave irresponsabilità anche perché occorrerebbero risorse finanziarie ingentissime e qualche lustro per vederle in funzione. Per la costruzione di un nuovo istituto da 300 posti si ipotizza siano necessari 2.530 milioni di euro e un periodo di tempo ricompreso tra 7 e 10 anni. Nel frattempo avremo la deflagrazione del sistema e la condanna nelle sedi internazionali dell’Italia come ai tempi della sentenza “Torreggiani”.

Più volte si è fatto notare che l’amministrazione penitenziaria potrebbe essere la più grande impresa italiana e che la detenzione basata sulla produzione potrebbe dare grandi risultati. Cosa pensa in proposito?

Fin quando avremo un sistema imperniato sul carcere come luogo di sofferenza e di espiazione dolorosa non credo che riusciremo ad avere una produttività sociale o economica della detenzione. D’altro canto cosa ci si può aspettare da un sistema basato sull’ostatività della pena ovvero l’impossibilità per chi ha commesso un reato di criminalità organizzata di accedere a trattamenti finalizzati al reingresso nella società? Se un Ministro della Repubblica Italiana, che va per la maggiore oggi, candidamente diffonde il messaggio alla pubblica opinione che una persona debba “marcire in galera” possiamo sperare in un carcere produttivo?

Altro punto del contratto di governo riguarda le pene alternative, considerate come gentili e imperdonabili concessioni alle persone detenute. Eppure oggi ogni detenuto costa 137 euro al giorno e appena 95 centesimi sono destinati alla rieducazione…

Fingono di non sapere che l’esistenza e soprattutto l’applicazione diffusa di misure alternative in grado di preparare il rientro del detenuto nella “società dei liberi”, oltre a essere una corretta applicazione del principio di risocializzazione della pena consacrato nell’art. 27 della Costituzione, rappresenta un beneficio per la società più che per il detenuto. Un detenuto gradualmente reinserito e accettato dalla società è un soggetto che difficilmente tornerà a delinquere.

Gli automatismi e le preclusioni oggettive introdotte dalle eterne logiche emergenziali e che oggi impediscono ai magistrati di sorveglianza di valutare caso per caso la possibilità di concederle o meno rendono l’Italia meno sicura e meno civile.

Altro motivo di arretramento, per una società civile, contenuto nel contratto è la proposta di abrogare la cosiddetta norma “Consolo” con cui oggi viene consentito a chi è sottoposto a regime di 41-bis di poter avere colloqui con i propri familiari e abbracciare i propri figli, mogli, padri, madri e nipoti. Proibire un abbraccio servirà a sconfiggere la mafia?

Il terrore non potrà mai sconfiggere un fenomeno complesso che non è solo criminoso. L’applicazione sistematica delle leggi emergenziali introdotte prima per il terrorismo e poi normalizzate per la mafia non sono servite né servono a debellare il fenomeno mafioso.

Quante volte abbiamo sentito in tv o letto sui giornali che un boss dopo decenni di 41 bis è ancora in grado di comandare solo con lo sguardo? Se ciò è vero vuol dire che il 41 bis è inutile, se non lo è vuol dire che il mantenimento di esso lo è altrettanto. Simili affermazioni fatte da magistrati di prim’ordine dimostrano che il 41 bis è una tortura gratuita e contraria ai principi fondamentali della civiltà occidentale. Rimango fermamente convinto che il delitto si debba affrontare con il diritto e non certo praticando altro delitto.

Di recente è stata approvata in via definitiva la legge “Spazza corrotti”, iniziativa del guardasigilli pentastellato Alfonso Bonafede. La legge in realtà spazza via alcuni principi elementari del diritto a cominciare dalla fine della prescrizione anche per l’imputato che fosse assolto. Qual è il suo giudizio in merito a questa legge?

È una modifica incostituzionale, inutile e soprattutto dannosa. Incostituzionale perché stravolge la presunzione di non colpevolezza costituzionalmente prevista dall’art. 27. Inutile perché non aggredisce l’eccessiva durata dei processi e il fatto che oltre la metà dei reati si prescrivono durante le indagini preliminari. Dannosa perché rende ognuno di noi potenziale “imputato a vita”. È l’ennesima riprova che ogni modifica sul processo penale e sul sistema penale in generale serve più ad aizzare le viscere degli italiani che a migliorare le cose. Sino ad oggi ci siamo battuti e ci batteremo contro il fine pena mai, adesso dovremo batterci anche contro il fine processo mai.

Ogni anno in Italia 1.000 persone vengono risarcite dallo Stato per essere stati in carcere da innocenti. Com’è possibile incorrere in così tanti errori giudiziari e cosa propone per evitare che un innocente finisca dietro le sbarre?

È un dato sottostimato. Non considera, infatti, quanti subiscono una detenzione ingiusta ma non hanno avanzato domanda di indennizzo oppure non è stato loro riconosciuto. Si limita a quelli positivamente indennizzati.

È un problema culturale non solo e non tanto normativo. Le norme che consentono di ridurre l’applicazione delle misure cautelari esistono, magari non per tutti i reati, ma esistono.

Purtroppo se un giudice non accoglie le richieste di centinaia di arresti fatte da un pubblico ministero rischia di finire sulla graticola di un’opinione pubblica che costruisce di giorno in giorno le forche a cui un giorno si ritroverà appesa. La custodia cautelare dovremmo chiamarla piuttosto carcerazione preventiva. A chi dice che il codice di procedura penale introdotto sulla scia emotiva del caso Tortora sia un codice ipocrita bisognerebbe ricordare che la sua applicazione concreta lo ha fatto diventare!

Perché non è prevista alcuna azione disciplinare, alcun procedimento penale per chi ha fatto finire dietro le sbarre un innocente?

Anche qua, le norme esistono, magari annacquate, ma esistono. Certo la concreta applicazione di esse ci induce ad affermare e invocare norme più restrittive, se i casi sanzionati dall’introduzione della legge sulla responsabilità dei magistrati ad oggi si possono contare sulla punta della mano. E ciò induce un sentimento diffuso di malcontento e uno spirito di corporazione mal sopportato. Rimane comunque un problema culturale e ordinamentale. La separazione delle carriere favorirebbe il giusto processo.

In Italia c’è una sorta di lobby dei periti: i processi più importanti vengono affidati a professionisti che hanno instaurato un particolare rapporto con il magistrato. Non sarebbe il caso di evitare che la competenza nell’assegnazione degli incarichi venga affidata ai giudicanti o ai titolari delle indagini?

Basterebbe maggiore trasparenza e possibilità effettiva di sindacare l’attribuzione degli incarichi di periti e amministratori giudiziari per rendere più lineari tali attività di supporto al giudice. Senza trasparenza non ci può essere controllo e senza controllo il rischio di andare oltre i binari è alto.

Prima che della giustizia, si diventa prigionieri della stampa: molte inchieste giudiziarie sostituiscono l’accertamento giudiziario con la condanna sociale. Come si può ovviare a questa deriva culturale del nostro sistema giuridico?

È un dramma e la misura dell’imbarbarimento della nostra società. Il circo mediatico-giudiziario come recita uno splendido libro di un avvocato francese, Daniel Soulez Lariviere, serve spesso a puntellare un’accusa prima ancora di una verifica nel contraddittorio tra le parti. Rappresentare un uomo come un mostro, scandagliare ogni suo vizio, certamente irrilevante per l’accusa, sputtanarlo davanti alla società è una amara preparazione verso un processo già gravato da forti emozioni. Anche qua le norme esistono.

Difficilmente però si assiste a un loro ossequioso rispetto. A partire dall’arresto delle persone che sfilano alle 9 del mattino davanti a telecamere e taccuini anche se in quei luoghi sono stati portati magari 6/7 ore prima. Oppure mettere in rete prima ancora della verifica stralci di conversazioni intercettate per solleticare la morbosità della gente.

Non è facile risolvere un problema che tocca l’intero sistema dell’informazione. Un sistema malato che confonde il giornalismo d’inchiesta con il riciclaggio delle informative. Tutto ciò dimostra quanto sia malato quel sistema in cui una durissima pena sociale viene espiata prima ancora che intervenga una decisione di condanna emessa da un Tribunale se non addirittura un’assoluzione processuale.

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