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sabato, Luglio 27, 2024
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Se è tradizionale, è sostenibile! La gastronomia calabrese rimane green

Il XXI secolo ci ha donato molto: villaggi globali, internet, scambi culturali. Per non parlare di tutte le specialità culinarie che ci ha permesso di provare! Ma, con buona pace del sushi giapponese e dell’asado argentino, a noialtri calabresi ci piace il sanguinaccio

L’avvento della globalizzazione, ammettiamolo, ci ha dato un po’ alla testa: comprimere i tempi e annullare le distanze sono cose a cui ci siamo abituati e ormai non potremmo più farne a meno. Purtroppo, però, il pianeta non regge i ritmi folli della società di consumo, specialmente quando riguardano allevamenti intensivi e sfruttamento delle risorse naturali. È giusto andare avanti, ma è prudente farlo voltandosi indietro, con un occhio di riguardo alla tradizione … specialmente quella gastronomica … meglio ancora se calabrese. Sotto questo profilo la Calabria – come il XXI secolo! – ci ha donato molto: il maiale d’Aspromonte, la preziosa sardella, il mitico tartufo nero; tutte cose che l’economia di mercato ha rischiato di far scomparire e che la proverbiale testardaggine calabra ha salvato dall’estinzione. Insomma, tre aspiranti martiri diventati miracolosamente eroi!

Primo martire: il maiale nero d’Aspromonte

“Nero”, il solo suono della parola rimanda immediatamente ai miti del nostro tempo: se è d’Avola, è vino; se è d’Aspromonte … è porco! Ed è pregiato almeno quanto il vino, se non di più. Non tutti lo sanno, ma il maiale nero porta con sé un bagaglio di emozioni contrastanti, una storia di passioni e struggimenti, un emblematico presente di riscatto sociale! Vi racconto com’è andata: questa particolare razza di suino, autoctona dell’Aspromonte, nell’Ottocento era probabilmente la più diffusa. Allevata allo stato brado, veniva nutrita con scarti alimentari e ghiande e non gravava di un’oncia sul bilancio familiare, perciò praticamente ogni casa, anche la più misera, poteva permettersi di avere il suo maiale domestico. Oltretutto era indispensabile averlo per i villici e i contadini più poveri, dal momento che la sugna era la principale fonte di condimento dei loro piatti. Ogni famiglia possedeva almeno un maiale nero e lo teneva al sicuro, spesso dentro casa insieme alle galline e ai bambini.

Questi suini erano talmente diffusi in Calabria che attorno all’uso di allevarli si sono sviluppate perfino certe leggende di solidarietà tra classi sociali: pare che le famiglie più ricche, che possedevano uno o due maiali, li affidassero a quelle più povere, che alla fine venivano ricompensate con carne e insaccati.

Agli inizi degli anni Ottanta, la razza del nero di Calabria era apprezzatissima all’interno della regione, ma praticamente sconosciuta nel resto della nazione. Anche in Calabria il suo allevamento si ridusse, sostituito da quello del maiale rosa, che era allevato al chiuso, poteva essere macinato entro gli otto mesi – contro i due anni che invece occorrevano alla razza aspromontana – e rendeva molto più in termini di quantità. Alla fine degli anni Novanta, l’allevamento del maiale rosa divenne talmente massiccio da portare quello nero sull’orlo dell’estinzione.

Grazie all’isolamento che caratterizza le zone interne dell’Aspromonte, però, i contadini legati alla tradizione sono riusciti a traghettare il suino nero fino ai nostri giorni e a renderlo apprezzatissimo: nel 2015 è stato insignito del premio “Medusa” come prodotto italiano migliore dell’anno per le sue peculiarità salutistiche, grazie alla bassissima quantità di grassi saturi della sua carne. Questa caratteristica è dovuta al tipo di allevamento praticato per il nero d’Aspromonte, che non sopporta la cattività e deve crescere allo stato brado o semi-brado: questo gli garantisce un’alimentazione spontanea a tutto beneficio della salute. Inoltre lo rende un perfetto ingrediente del sanguinaccio, che merita un paragrafo a parte.

Il sanguinaccio

I fanatici della tradizione lo ricordano (e forse ancora lo mangiano), le nuove leve ne avranno sentito parlare, per la generazione Z forse è un mito; ma gli anziani, loro sì, sanno ancora come si fa! Il sanguinaccio è il piatto meno convenzionale e più tradizionale della Calabria, oltre a essere quello più contraddittorio. Gli ingredienti principali sono finissimo cioccolato fondente e … sì, insomma, sangue di porco. Dallo strano miscuglio viene fuori un dolce consistente, pastoso, che regala al palato un’ultima nota acidula e alla mente la leggerezza di chi non pensa a quello che sta mangiando. Da quasi 30 anni ormai il sanguinaccio è vietato per legge, considerati i rischi relativi all’igiene; ma quando ancora lo si poteva preparare e consumare non c’era una famiglia che non lo mangiasse come minimo una volta l’anno (almeno in Calabria!). La ricetta di base prevede sangue misto a cacao e cioccolato fondente, amalgamato con farina e zucchero, aromatizzato con vino cotto e una presa di cannella; qualche gheriglio di noce o una manciata di grammi di cedro per gli intenditori!

Secondo martire: il tartufo nero

La carne del suino nero di Calabria è rara e pregiata, perché risulta molto difficile predisporre questa razza a un allevamento industriale. Chi alleva il maiale nero in Calabria si organizza in consorzi, regolati da norme alimentari molto rigide. Si cerca così di  salvare una tradizione più che secolare e di rilanciare l’economia delle aree interne. Lo stesso vale per un altro prodotto calabrese, dello stesso colore e dello stesso pregio del maiale: il tartufo. Stando alla tradizione, la ricerca e la raccolta del tartufo sono attività nate per hobby, durante le lunghe giornate autunnali delle zone del Pollino. Solo successivamente, con l’interessamento di biologi che hanno cercato di capirne il DNA e chef che ne hanno realizzato piatti gourmet, il tartufo nero è diventato un’eccellenza tanto rara quanto gustosa. Cresce in diverse varietà, viene trovato coi vecchi, affidabili metodi di paziente ricerca e non si è ancora fatto sfiorare dalle leggi di mercato!

Terzo martire: la sardella

Forse non vi è stato possibile provarla (perché è molto rara), ma di certo vi sarà capitato di sentir parlare (perché è deliziosa) della sardella, o nunnata, o caviale calabrese. Si tratta di una salsa i cui unici ingredienti sono il peperoncino piccante macinato e il novellame di sarda. È un prodotto tipico di tutta la fascia jonica e molte città se ne contendono le origini, ma dal 2006 trovarla è davvero una missione: a causa dello sfruttamento eccessivo delle risorse ittiche, l’UE ha vietato la pesca del neonato di sarda. Le cose sono cambiate a febbraio 2021, quando si è deciso per la pesca sperimentale con il metodo tradizionale della pesca con la sciabica, per garantire volumi sostenibili che non fanno male all’ambiente.

Vi lascio con una piccola curiosità: quando l’Europa vietò la pesca al novellame di sarda, la Cina ci propose di sostituirla con una specie ittica della loro zona chiamata “pesce ghiaccio”. Ma noi siamo riusciti a difendere la sardella dal martirio e l’abbiamo resa eroe della gastronomia sostenibile!

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