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venerdì, Maggio 17, 2024
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Tredicino – Tridicinu

Orlando Sculli ci riporta questa fiaba raccontata da Bruno Casile, il poeta contadino di Cavalli di Bova

Una coppia aveva avuto dodici figli, ma un giorno la moglie capì d’essere ancora una volta incinta e lo comunicò al marito. Prima che nascesse il bambino si scervellarono non poco per sceglierne il nome, in quanto avevano usato completamente il nome di tutti i loro famigliari. Pensarono per un po’ di tempo e alla fine decisero di chiamarlo Tredicíno.

Il bambino che nacque cresceva delicato, molto intelligente e dotato di infinita bontà e quando tutti i suoi fratelli si sposarono, egli non lo fece e restò con i suoi genitori nella loro casina. Quando essi morirono, restando solo, si dedicava ad aiutare i vecchietti.

In una notte d’inverno, cominciò a diluviare e l’acqua era accompagnata da tuoni e fulmini. Ad un certo punto sentì bussare alla porta; si alzò dal letto ed aprendo si trovò di fronte, bagnato fino alla radice dei capelli, un uomo sulla trentina, alto, magro, delicato nel volto e con i capelli lunghi ed ondulati. Lo fece entrare, accese subito il fuoco, gli asciugò gli abiti, arrostì per lui un pezzo di lardo, che gli offrì assieme ad olive schiacciate, sott’aceto e lo fece mangiare. Assieme bevvero un boccale di vino , dopodiché l’invitò ad andare a dormire nel suo letto, costituito dai trespoli su cui poggiavano delle tavole ed un materasso fatto da un grande sacco riempito di paglia d’orzo; gli diede due coperte di ginestra, un’imbottita di lana ed un cuscino confezionato con penne di galline. Egli invece si adagiò su un tronco squadrato, di circa un metro, accanto al focolare e coprendosi con una bisaccia, sonnecchiava poggiando i piedi vicino al fuoco.

Al mattino si alzò e all’ospite arrostì un palmo di salsiccia, una spanna per sé, stringendoli in un pane spaccato a metà, e mangiarono assieme, bevendo ciascuno un boccale di vino. Alla fine di tutto questo l’uomo si rivolse a Tredicíno e gli disse:

“Tredicíno, io non sono quello che tu hai pensato, ma Gesù e sto andando in giro per il mondo per saggiare il cuore degli uomini. La notte scorsa durante quella tempesta d’acqua, ho bussato a moltissime porte, ma nessuno ha aperto per ospitarmi, anzi una persona mi ha aizzato il suo cane che invece si è avvicinato e mi ha leccato, invece di mordermi. Tu sei l’uomo più buono che abbia mai visto e voglio ricompensarti; qualsiasi cosa tu chiedi, io te la procurerò!”

“Io non voglio niente, perché ciò che ho fatto, me l’ha dettato il cuore!”

“No tu devi accettarmi qualcosa, altrimenti mi offendo, perché significa che non mi vuoi bene. Chiedimi tre cose dunque!”

“Se voi pensate che non vi voglio bene, vi accetto qualcosa per dimostrarvi che ciò non è vero!”

“Comincia a chiedere dunque! Che cosa desideri?”

“Desidero una sedia!”

“Ma una sedia … è troppo poco per te!”

“La sedia però non deve essere come le altre, ma tale che, quando qualcuno vi si siede, non potrà alzarsi senza la mia volontà”.

“Va bene, questa è la sedia da te richiesta!” E comparve una sedia impagliata.

“Cosa cerchi ora?”

“Desidero un sacco”.

“Un sacco?”

“Un sacco, ma non come tutti gli altri, ma confezionato in modo che, chiunque vi s’infila non potrà più uscirne senza il mio permesso”.

“Questo è il sacco!” E apparve un sacco bianco, tessuto a trame spesse, molto grande.

“Per finire cosa chiedi?”

“Un berretto!”

“Un berretto! Così poco?”

“Ma non deve essere come gli altri, ma leggero per me, ma tanto pesante da non poter essere smosso, dagli altri”.

Così gli diede il berretto richiesto, ch’era di color marrone chiaro. Da quel momento in poi Tredicíno lavorando continuò a vivere con l’aiuto di Dio, ma una notte sentì bussare.

“Chi è?” Chiese.

“Sono io!”

“E chi sei tu?”

“Sono la morte!”

“E che vuoi da me?”

“Sono venuto a prenderti perché è arrivata la tua ora!”

Tredicíno andò ad aprire la porta, chiusa con il passantino, fece entrare la morte e la invitò ad accomodarsi.

“Aspetta che vado a lavarmi e a prepararmi; indosserò il vestito apposito, il berretto nuovo e poi partiremo”.

Avvenne che quando fu pronto si avvicinò alla morte e le disse:

“Io sono pronto!”

La morte fece il tentativo di alzarsi, ma restava attaccata alla sedia; provò, una, due, tre, dieci, venti, cento volte, ma non le fu possibile alzarsi. Passò un giorno, poi dieci, venti, trenta, ma la morte restava avvinta alla sedia. Nascevano bambini ma nessuno moriva più.

La morte, avendo compreso che la possibilità di alzarsi dalla sedia dipendeva da lui, un giorno gli disse:

“Tredicíno, non sai quanti danni stai combinando! Bimbi nascono, ma nessuno più muore e nello spazio di poco tempo, tutto il mondo sarà così pieno di gente, che alla fine gli uomini si mangeranno tra di loro. Dimmi che vuoi che te lo concedo”.

“Voglio vivere altri trecento anni!”

“Avresti potuto chiedermelo prima! Fra trecento anni ci rivedremo!”

Passarono gli anni ed anche per Tredicíno stava arrivando l’ora. Una notte sentì bussare, andò ad aprire e vide che era la morte.

“E’ arrivata la tua ora, andiamocene! Ricordati che sta per albeggiare e come tu sai, io non posso camminare di giorno. Fa presto!”

“Ho capito! Vado a prepararmi, ad indossare il vestito per l’occasione, il berretto nuovo. Intanto sedetevi!”

“Non mi freghi questa volta! Sto all’impiedi non ti preoccupare! Fa presto che sta albeggiando!”

La morte restò all’impiedi e Tredicíno andò a prepararsi e fece di tutto per perdere tempo e alla fine, quando fu pronto, era ormai chiaro.

“Hai visto? Ora debbo aspettare tutto il giorno a casa tua!”

“Ma non è detto. Possiamo andare comunque. Mi indicate la strada, v’infilate in questo sacco e vi metterò sulle mie spalle ed andremo, ad esempio, in paradiso”.

“Sta fresco! Apri il sacco e ricordati di andare verso la montagna, seguendo sempre il sentiero più frequentato.”

Tredicíno aprì il sacco e la morte saltò dentro. Camminavano da un pezzo quando arrivarono in un posto dove c’erano uomini che spaccavano pietre e Tredicíno poggiò il sacco per terra e disse loro:

“Tirate alcuni colpi di mazza sul sacco”.

Gli spaccapietre eseguirono e la morte, ad ogni colpo, lanciava urla disperate:

“Maledetto il giorno in cui ti ho incontrato! Tredicíno mi stanno riducendo in poltiglia! Fammi uscire, per l’anima dei tuoi morti!”

“Non ti preoccupare. Ti farò uscire, ma quando sarà buio, come tu hai comandato”.

Proseguirono il cammino ed attraversarono tutta la montagna, giungendo su un’altura dove c’era una fucina. Appena giunse Tredicíno vi entrò e disse ai fabbri ch’erano quattro, dopo aver poggiato il sacco sull’incudine:

“Tirate qualche colpo qui sopra!”

Al primo colpo la morte cominciò ad urlare:

“Tredicíno, cuore di pietra! Mi stanno facendo a pezzi! Fammi uscire, ti prego!”

“Ora ti farò uscire, perché sta calando la sera, ma prima mi devi promettere che mi farai vivere altri mille anni!”

“Te lo prometto, parola di morte!”

Così appena fece buio uscì fuori dal sacco, ma dopo mille anni ritornò e si portò via Tredicíno, dicendogli:

“Brutto ceffo; ti aggiusterò io ora! La prima volta avevo pensato di portarti in purgatorio, ma ho cambiato idea e ti porterò dritto all’inferno, dove ti divertirai un mondo a gironzolare tra braci grandi come una cassa!”

Camminarono per cinque, sei ore ed arrivarono di fronte alla porta dell’inferno, arrugginita e grande quanto quella di una chiesa, localizzata in un posto buio, che provocava solo sconforto.

Bussò la morte ed aprì un diavolone, rosso con la coda attorcigliata, nera e gialla; gli orecchi li aveva come quelli di una capra minda, interamente neri. Aprì e chiese con stizza:

“Che cercate?”

“Voglio”, gli disse la morte, “che ti prendi cura di questo delinquente che mi ha fatto passare le pene di Giobbe; ti raccomando di rifilargli tre mani di botte al giorno!”

“Ma che dici! Se lasci qua codesto babbeo è capace di darci fastidio e di mettere zizzania e di provocare discordie tra noialtri diavoli! Vattene prima che decida d’infilzarti con questo tridente di ferro!”

Sconfortata la morte andò via pensando:

“Spero che l’accettino al purgatorio e così me lo tolgo dai piedi!”

Camminarono un altro po’ e arrivarono davanti alla porta del purgatorio, ch’era più piccola di quella dell’inferno. Bussarono e si affacciò una figura d’uomo con un berretto rosso, ornato di fiocchi verdi.

“Cosa desideri?” Chiese alla morte.

“Ti ho portato questa faccia di scimmia che mi ha procurato tante sevizie!”

“Ma che dici! Non te l’hanno accettato all’inferno, replicò con un tono di voce femminile, e pretendi di lasciarlo qua! Vattene via, altrimenti chiamo rinforzi e non so cosa ti potrà capitare!”

Sconfortata la morte andò via pensando:

“Va a finire che gli devo permettere di vivere sempre, ma nel dubbio passo dal paradiso”.

Arrivarono di fronte alla porta del paradiso e bussarono. Aprì San Pietro e saputo cosa desiderava la morte disse:

“Ma cos’hai in zucca? Non te l’hanno accettato all’inferno e nel purgatorio e pretendi di lasciarlo qua? Vattene, perché se perdo la pazienza ti do una botta in testa e te la spacco a metà!”

La morte era tanto sconfortata che partendo pensò:

“Ora debbo riportarlo nel mondo, dove mi toccherà farlo vivere per sempre, dopo tutto quello che mi ha fatto!”

Nel frattempo Tredicíno, con parole gentili si rivolse a San Pietro:

“Maestro, per cortesia, potete socchiudere la porta e così potrò vedere com’è fatto il paradiso?”

“Va bene, ti accontento!”

Appena aprì Tredicíno si tolse il berretto dalla testa e lo buttò davanti alla porta semiaperta, al ché San Pietro disse:

“Bestia, screanzato e maleducato!” E cercò di togliere il berretto che impediva la chiusura della porta, attraverso cui, essendo semiaperta si vedevano gli angeli giocare a palla. Cercò di afferrarlo San Pietro, ma non lo spostò neppure di un centimetro e nonostante si sforzasse non riusciva a smuoverlo ed intanto la porta rimaneva aperta. Seppero la notizia le anime dell’inferno, con i diavoli e tutti quanti cominciarono a correre per infilarsi nel paradiso.

“Sventura nostra!” Gridava San Pietro assieme agli angeli, che smisero di giocare a palla.

“Se entrano nel paradiso, la nostra pace finirà! Forza togliamo il berretto!”

“E’ inutile che vi sforziate!” Disse loro Tredicíno.

“Allora cosa possiamo fare?”

“Se mi promettete che mi farete entrare, per restare, la tolgo io!”

“Te lo prometto! Fa presto!”

Tredicíno entrò e tolse il berretto e fece appena in tempo, in quanto tutte le anime dannate dell’inferno, assieme ai diavoli, erano arrivati a pochi passi.

 

. . .

 

Marítu e mugghjéri avívanu ddúdici figghji e nu jornu la mugghjéri si ccorgíu ch’era grávida e nci lu dissi a lu marítu. Prima mi nasci lu figghjólu ci pensáru mi tróvanu lu nomu pecchì avívanu finútu li nomi di li ddui famígghji. Penzáru nu pocu di tempu e dicidíru pemmi lu chjamánu Tridicínu.
Lu figghjólu criscía magru, magru, chinu di gnegnu e cu nu cori grandi grandi. Li so frati si maritáru e iđđu restáu, non maritátu, cu la mamma e cu lu patri, a la so casicéđđa. Quandu iđđi moríru restáu sulu e allúra jutáva tutti li vecchjaréđđi. Na notti di mbernu chjoviva chi paríva ca ndavíva venútu lu dilúviu, cu acqua e vventu, cu trona e lampi. Ntisi bussári nta la porta, si azzáu di lu lettu e japríu e vitti nu cristiánu ngurnátu di la testa a li pedi, cu li capíđđi longhi ndoli ndoli, artu e maggru, cu na facci dilicáta, supra a la trentína. Mpena trasíu, đđumáu lu focu a lu foculáru, si sciucáu li rrobbi, si rrustíu nu pezzu di lardu, si lu pprontáu nta na limbéđđa nzemi a llivi o citu, scacciáti e lu fici pemmi mangia. Doppu nzemi si mbivíru nu bucáli di vinu e lu fici mi si curca nta lu so lettu ch’era fattu cu li tríspiti, cu li távuli, cu nu saccúni chinu di clapu , cu ddu cumbógghji di jinéstra e na cutra di lana; lu cuscínu era jincútu di pinni di gađđíni. Iđđu si ppojáu supra lu ccippu ch’era longu cchjù di menza canna, vicínu a lu foculáru, si ccuppáu cu na bértula e cimijáva cu li pedi a lu focu.
E la matína si azzáu e si rrustíu nu parmu di sađđízzu a lu cristiánu e nu spangu si lu tinni p’e iđđu, e li stringíu nta mmenzu a lu pani χjaccátu e mangiáru, mbivéndusi nu bucáli di vinu l’unu. Doppu chi finíru lu giúvanu si votáu a Tridicínu e nci dissi:
“Tridicínu eu sugnu non chiđđu chi tu penzásti, ma Gesù e staju jendu nta lu mundu mi scorgiu li cori. Stanotti cu đđu dilúviu d’acqua bussávi a tutti li parti e nuđđu mi japríu, anzi nu cristiánu mi spigghjáu lu cani chi vinni e mi đđiccáu, mbeci mi mi muzzíca. Tu si l’omu cchjù bbonu chi vitti e vogghju mi ti ricumpénzu: cércami chiđđu chi voi ca ti lu dugnu!”
“Eu non vogghju nenti, pecchì chiđđu chi fici lu fici di cori!”
“No, tu ndai pemmi ccetti carchi cosa di mia si nno mi ffendu e voli diri chi non mi voi bbeni; cércami tri cosi!”.
“Si vui penzáti ca non vi vogghju bbeni allura vi ccettu chiđđu chi mi dati pemmi vi mmustru ca non è veru!”.
“Ddunca pe prima cosa chi vvoi?”
“Vogghju na seggia!”
“Ma na seggia … è troppu pocu pe ttia!”
“Vabbò ma la seggia non avi ad ésseri comu a l’autri, ma si unu si ssetta đđà supra, mi si azza non poti senza di lu meu cunséntu”.
“Vabbò, chista è la seggia!”
E cumparíu na seggia bbudáta.
“Apói chi cerchi?”
“Vogghju nu saccu!”
“Nu saccu?”
“Nu saccu, ma non comu a l’autri, ma fattu a modu ca si unu si mpila đđà intra, non poti nescíri senza lu meu cunséntu!”.
“Chistu è lu saccu!” E cumparíu nu saccu jancu, tessutu c’u traméđđi, grandi comu a chiđđu di li ovári.
“Pe terza cosa chi cerchi?”
“Na berritta!”
“Na berritta, tantu pocu?”
“Ma non avi ad ésseri comu a l’autri, ma leggéra pe mmia, ma chi non si poti cacciári pe l’autri”.
Accussì nci dessi la berrítta ch’era di culúri muscátu. Tridicínu lavuráva e campáva cu l’aiutu di Ddiu, ma na notti ntisi bussári.
“Cu è?”
“Sugnu eu!”
“E cu si tu?”
“Sugnu la morti!”
“E chi vvoi di mia?”
“Vinni mi ti pigghju pecchì rriváu l’ura!”
Tridicínu jiu, nci japríu la porta ch’era chjusa cu lu succhjáru, la morti trasíu e la fici pemmi si ssetta.
“Ddunca spetta ca vaju, mi mi sciacquu, mi mi riggístru, mi mi mentu lu vestitéđđu di la morti, la berrítta nova e partímu”.
Accussì fu e quandu fu prontu si mbicináu a la morti e nci dissi:
“Eu sugnu prontu!”
La morti fici ímpitu pemmi si azza, ma restáva mbiđđáta a la seggia; prováu una, ddui, tri, deci, vinti, centu voti, ma non fu possíbili mi si azza. Passáu nu jornu, pói passáru deci, vinti, trenta e la morti restáva mbiđđáta a la seggia. Figghjóli si facívanu, ma nuđđu moríva cchjù.
La morti chi ndavíva capisciútu ca lu azzári di la seggia dipendíva di Tridicínu nci dissi nu jornu:
“Tridicínu, non sai quantu dannu stai facéndu; li nípiji náscianu, ma nuđđu mori e nta pocu tempu tuttu lu mundu si jínchi tantu di ggenti, ca all’úrtimu si mángianu unu cu l’autru. Dimmi chi vvoi di mia ca ti ccunténtu”.
“Allúra vogghju pemmi campu n’autri tricéntu anni!”
“E non mi lu dicívi prima? Fra tricéntu anni ndi vidímu!”
Passáru l’anni e puru pe Tridicínu stava rrivándu l’ura. Na notti ntisi bussári e jiu mi japri ed era la morti.
“Ddunca rriváu l’ura jamuníndi! Ricórdati ca simu vicínu pemmi arbíja e comu tu sai, eu non pozzu caminári di jornu! Fa’ prestu!”
“Vabbò, vaju e mi riggístru e mi mentu lu vestitéđđu di la morti e la berrítta nova, ntantu sséttati”.
“Non mi futti chista vota, staju a la ddritta, non ti marijári, si sullícitu ca staci arbijándu!”
La morti stesi a la dritta e Tridicínu jiu mi si rigístra, ma lu fici appósta pemmi ddimúra e quandu finíu era jornu chjaru.
“Lu vidísti? Ora ndaju a spettári tuttu lu jornu nta la casa tua!”.
“S’è pe chistu potímu jiri lu stessu, pecchì mi dici prima chi strata ndaju a ffari, ti zzicchi nta lu saccu ed eu ti portu ancođđu e jamu, fingímu a lu paradísu!”.
“Sta fríscu! Japri lu saccu e ricórdati mi vai verzu a la muntágna, sequitándu lu vióttulu cchjù minátu!”.
Tridicínu japríu lu saccu e la morti si mpiláu. Camína chi ti camína rriváru a undi ndavíva omeni chi spaccávanu petri e Tridicínu ppojáu lu saccu đđa nterra e nci dissi:
“mináti nu paru di botti cu la mazza cca supra!”
Nci mináru e la morti intra gridáva comu na brusciáta:
“smalidíttu lu jornu chi ti ncuntrái Tridicínu; mi stai fándu fari pitréca! Fammi mi nesciu di cca pe l’anima di li to morti!”
“Non ti preoccupári ca nesci, ma nesci quandu scura, comu dicísti!”.
Camináru e passáru tutta la muntágna e rriváru nta nu puntúni a undi ndavíva na forgia. Appéna rriváru Tridicínu trasíu intra e nci dissi d’i li forgiári, ch’éranu quattru:
“mináti ddu bbotti cca!”
E misi lu saccu supra a l’incúdina. A minári cu tutta la forza e a gridári la morti fu unu:
“Tridicínu, cori di petra, mi stai scampulijándu, fammi mi nésciu di cca!”
“Ora nesci ca staci scurándu, ma prima ndai mi mi prométti ca mi fai mi campu n’autri mill’anni!”
“Ti lu prométtu, paróla di morti!” Accussì appéna scuráu japríu lu saccu e la morti juntáu.
Doppu mill’anni tornáu la morti e si pigghjáu a Tridicínu.
“Facci di pittára ti lu llisciu eu lu pilu, ndavíva penzátu mi ti levu o pirgatóriju, ma ora ti portu a lu mpernu e ti sciali lu cori nta đđi braci grandi comu nu casciúni!”
Camináru pe cincu o sei uri e verzu menzanótti rriváru davánti a la porta di lu mpernu ch’era rruggiáta, pecchì era di ferru e grandi comu chiđđa i na chjésa. Era nta nu locu tantu scuru chi ccuppáva lu cori. Bussáu la morti e japríu nu diavulúni, tuttu russu cu la cuda mbrogghjáta niggra e giálina, li ricchji comu chiđđi di na crapa minda, tutti niggri.
Japríu e tuttu ncazzátu dissi:
“Chi vvolíti?”
“Vogghju”, nci dissi la morti, “mi ti pigghji stu nquisítu chi mi fici mi passu li peni di Giobbi e mi nci duni tri razzíoni a lu jornu di surva!”
“Ma chi mi dici! Ssu babbáu si lu dassi cca è capaci mi ndi duna nnociu e mi nci menti mísciti e miscórdia tra nuautri diávuli! Vattíndi i ccà prima mi ti mpilu cu stu tridénti di ferru!”
Scumportáta la morti si ndi jiu, penzándu:
“Speru ca lu vonnu a lu pirgatóriju accussì mi lu cacciu di li pedi!”
Camináru nu pocu e rriváru davánti a la porta di lu pirgatóriju ch’era cchjù pícciula. Bussáru e nescíu nu cristiánu cu na berrítta russa e tunda cu nu χjócculu virdi.
“Chi voi?” nci dissi a la morti.
“Ti portái sta facci proíbita chi mi fici tanti sprizzi!”
“Chi ddici, non ti lu vósaru a lu mpernu”, dissi cu na vuci fimmanína, “e voi mi lu dassi cca? Vattíndi ca si nno chjamu ajutu e non sacciu chiđđu chi ti poti capitári!”.
Scumportáta la morti partíu, penzándu:
“Va a finíri ca ndaju mi lu fazzu mi campa sempri, ma pe lu sì e pe lu no passu di lu paradísu”.
Rriváru a la porta di lu paradísu e bussáru. Apríu San Petru e quandu ntisi lu fattu dissi:
“Ma ndai panicottu nta la testa! Non ti lu vósaru nta lu mpernu e non nta lu pirgátoriju e voi mi lu dassi cca? Vattíndi prima mi perdu la bússula e pemmi ti spartu la scrima cu na jíffula nta la testa!”
La morti era tantu scumportáta ca era pronta mi ciangi e penzáva:
“Ora ndajiu mi lu portu nta lu mundu e mi lu fazzzu mi campa sempri, dopu li sprizzi chi mi fici!”
Nta đđu mentri Tridicínu cu li belli paróli nci dissi a San Petru:
“Summástru potíti sgagghjári la porta, accussì pozzu vidíri comu è intra?”
“Vabbò, pe tantu pocu!”
A sgagghjári la porta, Tridicínu si cacciáu la berrítta di la testa e la jettáu avánti a la porta.
San Petru dissi:
“Nimáli di panza, scustumátu e malucrijátu!”
E jiu mi caccia la berrítta pemmi chjudi la porta chi rrestáu sgagghjáta e si vidívanu l’ángiali chi jocávanu cu lu fađđu. Si misi mi la pigghja, ma no la spostáu mancu di na chjica e cchjù si sgađđarijáva e cchjù na la spostáva e ntantu la porta non si potía chjudíri. Sépparu ca la porta era perta l’animi di lu mpernu e nzemi a tutti li diavuli cuminciáru mi fújinu mi si mpílanu nta lu paradísu.
“Focu nostru!” gridáva San Petru e tutti l’ángiali chi smettíru mi jócanu a lu fađđu. “Si rrívanu cca intra, perdímu la nostra paci! Forza cacciámu sta berrítta di cca!”
“E’ addinútuli mi vi sporzáti!” nci dissi Tridicínu.
“Allúra chi avímu a fari?”
“Si mi facíti mi trasu nta lu paradísu e mi restu, la cacciu eu!”
“Ti lu promettu! E fa prestu!”
Tridicínu si misi intra e cacciáu la berrítta e fici ntempu a malappéna pecchì chiđđi di lu mpernu ndavívanu rrivatu a pochi ancáti.

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